In psichiatria la sindrome di Zelig (Zelig Syndrome o Zelig-like Syndrome) viene associata a casi di personalità adattivamente camaleontica e di trasformismo identitario dipendente dal contesto ambientale.
Zelig è anche un bellissimo film girato da Woody Allen come un falso documentario (mockumentary), vale a dire un espediente narrativo nel quale eventi fittizi e di fantasia sono presentati come se fossero reali attraverso l’artificio del linguaggio documentaristico. Per l’originalità dell’approccio di Allen, è la patologia psichiatrica sulla personalità trasformista ad essergli debitrice del nome.
La trama del film ruota attorno al rapporto tra vero e falso ed al tema della manipolazione della realtà, ma è soprattutto una rappresentazione in chiave satirica di un male attualissimo nella società del paradigma socioeconomico imperante: il conformismo. Di questo modello il protagonista è il campione assoluto, così bisognoso di essere accettato da perdere la sua identità per assumere quella dell’interlocutore.
Leonard Zelig nato a New York, figlio di una matriarca e di un fallito attore yiddish, è un poveraccio che soffre di una grave forma di carenza affettiva. È proprio questa privazione che porta Zelig a identificarsi psicologicamente e fisicamente con le persone che incontra: è un camaleonte umano. Con un suonatore nero di jazz diventa suonatore di jazz e pure nero; con dei campioni di baseball diventa anch’egli campione di baseball; diventa obeso con gli obesi, indiano con gli indiani. Diventa addirittura sosia di Papa Pio XI, fino ad arrivare alla scena clou in cui lo vediamo alle spalle di Hitler mentre l’esaltato dittatore arringa una folla di nazisti.
Zelig, come il suo protagonista, è tante cose insieme. Innanzitutto è una divertentissima commedia, con alcune battute fulminanti e con un effetto comico che nasce dal contrasto tra contenuti demenziali e l’estrema serietà formale. Ma è anche una celebrazione amara di un periodo che andava più o meno inconsapevolmente incontro alla sua fine, schiantandosi prima sulla crisi del ’29 e dopo sulla Seconda Guerra Mondiale. Nel mezzo la nascita della società di massa.
Ritrovare Leonard Zelig ad un’adunata nazista in cui sta parlando Hitler è pertanto il perfetto punto d’arrivo del suo percorso, perché immergersi nella massa e nell’anonimato del totalitarismo è, come ci illustra mirabilmente l’attore/autore dello script/sceneggiatore/regista Allen, l’approdo finale di ogni conformismo.
A distanza di un secolo dall’ambientazione di Zelig sembra che realtà e finzione siano sempre più difficili da distinguere e che il conformismo sia un vestito sempre attuale, soprattutto se ad indossarlo furbescamente sono quelli che ci vendono una narrazione.
A dire il vero, nella sceneggiatura distopica che è la società globale di inizio millennio è la realtà a superare di gran lunga ogni possibile immaginazione. E i soggetti con carenze affettive spuntano come funghi.
In principio erano le “armi non letali”, come ha ricordato Travaglio nell’editoriale sul Fatto del 20 maggio. Lo disse pure Letta a L’Avvenire il 27.2.22: “Per aiutare gli ucraini va rafforzato l’invio di materiale bellico non letale”. E lo scrisse Draghi nella bozza di risoluzione sul primo decreto Armi. Poi, il 1º marzo, Supermario Draghi si alzò in volo con tanto di mantello: “Armi letali” all’Ucraina, ma solo per la “legittima difesa” ucraina, tipo missili terra-aria e anti-carro a breve gittata, mitra e mortai. Fu ancora lui a ribadire il 28.6.22: “Armi e sanzioni sono fondamentali per portare la Russia al tavolo dei negoziati”. Il 12.3.22 fu la volta di Joe Grande Capo Biden: “L’idea che invieremo armi offensive e che avremo aerei e carri armati… si chiama terza guerra mondiale”.
Poi Usa e Paesi Nato, dopo averlo negato per mesi, hanno iniziato a inviare lanciarazzi e missili a lunga gittata in grado di colpire la Russia. Poi, sempre dopo averlo escluso, ecco i carri armati Abrams e Leopard. Lo schema è sempre lo stesso: Zelensky chiede, l’Occidente dice no, ma nel volgere di qualche giorno cambia idea. E ogni volta si accompagna l’invio di nuove armi con i borborigmi dei bulli bellicisti sicuri del fatto che Putin “non oserà usare l’atomica”.
Ieri infine l’epilogo: dopo un anno di false aperture ai negoziati, il G7 si è chiuso con l’impegno unanime a sabotare qualunque dialogo, sia esso promosso da Papa Francesco o dalla Cina, obiettivo finale della WWIII targata Usa più vassalli d’Europa.
Meloni intanto non fa una piega e tra i “Grandi” della Terra è a proprio agio, cambiando vestito proprio come Zelig fa con le personalità. Ormai a mimetismo ha superato persino il Girasagre. Non è un caso se Biden la prende per mano al vertice dei Grandi del Pianeta, manco lui fosse Gomez degli Addams e lei Mercoledì.
A Hiroshima il G7 finisce con gli Usa che alzano il livello dello scontro per procura con la Russia, autorizzando gli alleati della Nato a fornire a Kiev i caccia F16 e la formazione dei piloti, esattamente come avrebbero fatto se Meloni, invece di indossare i colori pastello della von der Leyen, fosse rimasta in Italia per mettere una cerata e gli stivali per andare a portare una parola di conforto alle popolazioni alluvionate. E magari una bozza di piano regolatore nazionale che impedisca di costruire dentro gli alvei dei fiumi. Per dire.
Una cosa è sicura: banchettare tutti insieme discutendo della prossima guerra nucleare sulle ceneri del primo sterminio atomico è stato un tocco di classe mirabile. Probabilmente Biden avrà commentato: “toh, guarda che bel lavoretto abbiamo fatto quella volta. Magari ci potremmo pure riprovare”.
A me questi Zelig non fanno un cazzo ridere.
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