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Muoia Sansone con tutti i filistei. O anche no

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Il trentennio liberale e la restaurazione delle disuguaglianze

C’è un paradosso che attraversa l’Italia del nuovo millennio, un filo rosso che unisce Berlusconi a Monti, Renzi a Draghi, Letta a Meloni: la trasformazione di ogni promessa di rivoluzione liberale in una restaurazione oligarchica.

Dal 1994, annus horribilis che vide il mite Occhetto soccombere al sorriso ammaliante del Caimano di Hardcore, trent’anni di liberismo, moderatismo e centrismo tecnocratico hanno partorito un Paese in cui chi lavora paga tutto e chi vive di rendita non paga un cazzo. .

Dalla rivoluzione liberale alla rivoluzione delle rendite

Quando San Silvio Berlusconi si presentò all’Italia come l’uomo della “rivoluzione liberale”, stava semplicemente traducendo nel linguaggio televisivo l’ideologia che aveva già conquistato il mondo anglosassone negli anni Ottanta: la liberazione del mercato come liberazione dell’individuo.

In realtà quel progetto nasceva già in ritardo, come epigono della stagione thatcheriana e reaganiana. In un’Italia che non aveva mai conosciuto il capitalismo competitivo anglosassone, il liberismo divenne una maschera dietro cui si consumava la fusione tra potere politico e potere economico. La promessa di “meno tasse e più libertà” si è così tramutata in un sistema fiscale sempre più regressivo, dove la pressione si è spostata dal capitale al lavoro, dai profitti finanziari ai redditi da dipendente.

Il trentennio liberale non ha prodotto un’Italia più libera, ma un’Italia più proprietaria, dove l’ideologia del possesso ha sostituito quella della produzione. In un paese governato dal consolidamento del privilegio per i pochi a danno dei molti – questa è in estrema sintesi la Restaurazione neoliberale – il ceto medio si è trasformato nel vitello grasso da sacrificare in nome della rendita.

Solo quelle foche ammaestrate dei Fozza Gioggia non capiscono che, da quando in Occidente si campa di speculazione più che di produzione, sono rimasti gli unici nostalgici a pensare di appartenere a una borghesia che non esiste più, se non come massa di manovra per ducette malate di potere.

La sinistra che smise di essere sinistra

Il vero successo dell’ideologia liberale in Italia non è mai stato quello evidente di Berlusconi, ma quello più discreto e meno urlato della sinistra che ha smesso i panni della redistribuzione per vestire la crestina da servetta del capitale.

Dal postcomunismo del PDS alla “terza via” veltroniana e renziana, la sinistra ha abbandonato l’idea di uguaglianza sostanziale per adottare il linguaggio della meritocrazia, della competizione, della governance.

L’antagonismo ideologico tipico delle società fondate sul confronto democratico alle urne è stato sostituito dalla retorica della “modernità” e dell’“innovazione”, dalla “resilienza” e dal “partenariato”, concetti che sono serviti a mascherare la dismissione dello Stato sociale e la sottomissione alla logica dei mercati.

Quando Mario Monti e poi Mario Draghi hanno assunto il potere come “tecnici”, la sinistra liberaldemocratica non ha resistito: li ha elevati a garanti della serietà, del bene comune e dell’Europa.

Così facendo, la tecnocrazia liberale ha potuto operare indisturbata, drenando risorse dal lavoro e dalle imprese produttive per alimentare un capitalismo di Stato privatizzato (un’idea alquanto sui generis di socialismo), fatto di concessioni a furbetti del mercatino, di finanza creativa e immobiliare e di debito pubblico alle stelle. A volte i paradossi.

Il liberalismo senza libertà

In tutto questo bailamme pseudo ideologico, il termine “liberale” ha subito la sorte dei grandi concetti politici della modernità: è diventato una parola vuota, utile a legittimare ogni forma di potere.

Il liberalismo originario, quello che difendeva il cittadino dallo Stato, la libertà di pensiero dal dogma, l’individuo dal privilegio, è stato sostituito da un liberalismo di casta, che difende il privilegio dalla collettività e il mercato dalla democrazia.

Così la tassazione in Italia è diventata il simbolo di questa deriva: non uno strumento di giustizia sociale, ma un meccanismo di controllo e sottomissione del lavoro produttivo. Chi lavora e produce — artigiani, professionisti, piccoli imprenditori, dipendenti — è l’unico soggetto realmente tassato, mentre i grandi patrimoni, le rendite finanziarie, gli oligopoli bancari, tecnologici e immobiliari restano intatti.

È il trionfo del liberismo illiberale: un sistema che invoca la libertà per giustificare la diseguaglianza, e la razionalità economica per perpetuare il privilegio di casta.

La prossima ondata: uguaglianza contro oligarchia

Ogni ciclo storico porta in sé la propria crisi, è fattuale.

Il trentennio neoliberale italiano non fa eccezione. Come nell’Ottocento il liberalismo di stampo oligarchico generò i movimenti socialisti e repubblicani, come il primo dopoguerra generò il Biennio Rosso, ma ahimè anche il fascismo, come il secondo dopoguerra ha prodotto la Costituzione introducendovi il concetto di welfare, così oggi il dominio tecnocratico genera la propria antitesi: una nuova domanda di uguaglianza, di giustizia sociale e fiscale e di solidarietà concreta.

Non sarà una ripetizione del Novecento, ma un nuovo egalitarismo del XXI secolo, fondato non più sul lavoro industriale ma su quello cognitivo, precario, digitale.
Un movimento capace di rimettere al centro non l’individuo consumatore, ma il cittadino lavoratore, non la libertà astratta dei mercati, ma la libertà concreta di chi non deve scegliere tra lavorare e vivere.

Perché, come sempre, quando i liberali smettono di essere liberali e affidano il lavoro sporco agli squadristi in orbace, poi tocca agli altri ricominciare la Storia. Sempre che, nel frattempo, qualche Sansone psicolabile a stelle e strisce non si senta in diritto di mandare tutto a puttane.

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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