“Quando tutto sarà privato, saremo privati di tutto!”, recava scritto qualche tempo fa il cartello di una manifestante francese.
Tra le tante cose interessanti che stanno accadendo in Francia e che passano sotto traccia sui giornaloni padronali nostrani c’è il fatto che ampi settori della media borghesia, gli stessi che hanno portato al potere Macron per due volte, stanno iniziando a scaricarlo, inorriditi dal piglio autoritario e dalla manifesta insofferenza del potere (le manganellate e gli idranti) verso il malcontento della maggioranza dei francesi.
La riforma delle pensioni è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma la vera questione riguarda, in Francia come nel Regno Unito e in Germania, la presa di coscienza, non solo da parte dei poveri e degli sfruttati, del fallimentare modello neoliberista.
Ciò che lascia un tantino sconcertati invece è che in Italia ci si mobiliti solo per i diritti (civili) dei benestanti.
Quella che investe le disuguaglianze economiche è una lotta trasversale che interessa i ceti popolari e quelli medi, entrambi sempre più impoveriti ed esasperati. Mettere insieme queste parti di società (“pars” è anche la radice della parola “partito”) significherebbe creare una massa critica enorme in grado di scatenare una formidabile onda d’urto contro i governi maggiordomi del grande capitale finanziario e della speculazione.
Com’è ovvio, arrivare a immaginare un partito fondato su posizioni antitetiche a quelle del modello immaginato dalla Scuola di Chicago è più facile a dirsi che a farsi. Soprattutto in un paese, qual è il nostro, in cui i rigurgiti di restaurazione sono avallati dal basso: i servi che ambiscono a diventare padroni.
E adesso il domandone finale: perché in Italia i (neo)liberali hanno ritenuto di dover colonizzare un apparato di tradizione politica prima comunista e poi socialdemocratica?
La risposta è ovvia: perché è più facile occupare una struttura con una base e un seguito elettorale già pronto all’uso per portarvi dentro i propri dogmi attraverso la tiritera delle competenze e del merito che creare qualcosa da zero.
Quello che in termini politici risulterebbe ributtante alla maggioranza delle persone diventa l’opportunità per élite vecchie e nuove di fare delle conquiste sociali argomento da gustosi apericena tra “arrivati”.
In Italia ci sono ormai 10 milioni di persone che sono povere pur avendo un lavoro (fonti Istat e Forum DD). La destra meloniana che si finge paladina delle periferie ha buon gioco nel portarli dalla sua parte, contando su tre decenni e più di adesione al modello neoliberista da parte della sinistra di governo. Il resto lo fanno l’indifferenza e la rassegnazione che costituiscono il partito di maggioranza relativa nel Paese.
Staremo a vedere come evolveranno le proteste in Europa, ma dubito fortemente che in Italia si andrà oltre il nuovismo debole delle eroine da ZTL o il becerume populista destrorso.
Destra e sinistra, per capirci semplificando un po’, sono un blocco sociale privo di colore che vota per sé stesso e campa per cooptazione. Quando può, non esita a farsi aiutare dal folklore che porta il voto di non pochi nostalgici di certi marmorei busti del Ventennio e da quella parte delle periferie disagiate che non sa più a che santo votarsi per vedersi riconosciuto il diritto ad esistere in una società in cui chi ce l’ha fatta a farsi strada pontifica dal pergolato di rose su gruppetti facebook di pesci liberal e unicorni.
A ben vedere, in Italia tra riformisti di destra e rivoluzionari di sinistra non c’è alcuna differenza: i primi non fanno le riforme, i secondi non fanno le rivoluzioni. Tutti però hanno i loro quindici minuti di celebrità. E a volte sono anche troppi per un paese sull’orlo del baratro.
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