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La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza

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Sarebbe stato meglio che Togliatti si fosse dedicato anema e core a una Norimberga italiana, a veder dondolare da una corda gentaglia che morì tranquillamente di vecchiaia nel suo letto (con la tessera del MSI in saccoccia) e a verificare puntualmente il rispetto di quanto stabilito dalla XII disposizione vergata nella Costituzione.

Invece il Migliore, con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, scrisse nel 1950 sulla rivista Rinascita (“Rinascita”, anno VII, n. 11-12, nov. dic. 1950) parole di fuoco su 1984 di George Orwell definendolo “un’altra freccia della cultura borghese, capitalistica e anticomunistica aggiunta al proprio arco sgangherato”.

All’ira di Togliatti non poteva sfuggire il messaggio di Orwell, tanto più pericoloso in quanto proveniente da un combattente antifascista del partito libertario trotzkista nella guerra civile spagnola. Per il solido pragmatismo osservante del leader comunista italiano era impensabile che a fare il punto sulla deriva totalitaria dello stalinismo fosse un “romanzo d’avvenire”, come ebbe a definirlo.

Roderigo alias Palmiro, proprio mentre Rodolfo Graziani, Junio Valerio Borghese e Giorgio Almirante gliela facevano sotto il naso con la formuletta paracula «Non rinnegare, non restaurare» coniata da Augusto De Marsanich, insisteva nel tentativo di infangare il lavoro dello scrittore inglese.

La ragione di una tale acredine poteva trovarsi nella conclusione di un percorso iniziato sin dai primi numeri di “Rinascita” in cui Togliatti rivolgeva i suoi strali contro chiunque si fosse macchiato di apostasia: azionisti non frontisti, liberali, democratici, socialisti umanisti e, più in generale, tutte quelle personalità della sinistra democratica che rifiutavano di considerare la resistenza al fascismo una prerogativa esclusiva dei comunisti, soprattutto se si finiva col diventarne la copia.

L’invettiva colpì Gaetano Salvemini, definito  “persona poco seria”, il critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti, resistente azionista, al quale toccò l’epiteto di “pigmeo della Guerra Fredda”. Ce ne fu anche per Vittorio Gorresio, “uno scarafaggio”, Ernesto Rossi e gli amici de “Il Mondo”, “una rivista di sedicenti liberali che raccomandano i preti e Benedetto Croce”. Gli attacchi si facevano particolarmente violenti quando si trattava di mettere alla berlina gli ex comunisti approdati a lidi democratici che credevano “a quel ripugnante machiavellismo che ogni comunista fallito porta con sé come una luce segreta” divenendo “guardia svizzera della cultura” al servizio del “noto agente dell’anticomunismo Ignazio Silone, socio di Luigi Gedda”. Capito il tipo?

Poi Stalin ebbe il buon gusto di crepare, non senza aver ammazzato o internato nei gulag un buon numero di oppositori, a dimostrazione di come un’utopia, proprio come scriveva Orwell, possa trasformarsi in ciò che vorrebbe ripudiare.

A cercare di spiegare la differenza tra fascismo e comunismo prova da anni il professor Barbero, ma la devastazione culturale dilagante in Italia (e in Europa) fa sì che si pensi che l’identità degli esiti corrisponda all’identità delle premesse. E no, cari revisionisti di ‘sta cippa! Il comunismo è stato l’ideologia di milioni di persone che non sono mai andate al potere e non hanno mai creato dittature, ma al contrario sono state perseguitate in moltissimi paesi in cui si è verificata la deriva autoritaria da sinistra. Invece i fascisti sono quelli lì.

Nel trentennio intercorso dal 1948 al 1984 lo scontro tra la fittizia libertà occidentale, garantita dal militarismo atlantista USA, e il totalitarismo sovietico, per effetto dello scontro impari tra economie, ha smesso di giocare in attacco. La destalinizzazione è andata avanti, seppure a singhiozzo, i gulag sovietici sono emersi dalle nebbie siberiane e la vecchia guardia comunista in Italia ha lasciato la direzione a leader più giovani come Enrico Berlinguer che, pur continuando a mantenere rapporti di buon vicinato con Mosca, si è smarcato per giocare la partita governativa del Pci, a rischio di andare a perdere qualcosa in purezza ideologica.

Così nelle università, sui giornali, sulle riviste e tra gli editori, anche di sinistra, si è ripreso a parlare dell'”impuro” Orwell e a pubblicarne le opere. Tutto molto bello? Manco per niente. Perché è proprio negli anni ’80 che la sinistra post comunista, nel frattempo accomodatasi in molti centri nevralgici di potere, capisce che essere dalla parte di chi sta male va bene in tempo di elezioni, ma stare in concreto dalla parte del privilegio è meglio. È questo il momento in cui una babbiona cotonata pronuncia la fatidica frase “There Is No Alternative” che apparecchia la tavola all’attuale presente. Conniventi e paraculi li abbiamo visti all’opera. E hanno tutti un nome.

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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