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La giusta prospettiva

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Che poi Donny è un babbione di quasi ottant’anni che ha preso il posto di quell’altro che non distingueva il cesso dall’armadio. A ben vedere, mi preoccupa assai di più Musk e il fatto che a fare il saluto dei Klingon sia uno che ha meno dei miei anni. Però dai, non è fascio, è colpa dell’autismo.

In realtà quella a cui abbiamo assistito ieri è stata una consapevole involuzione concettuale, lessicale e gestuale a beneficio di adulatori lombrosiani, ma è parimenti una forma di potere nuova e potenzialmente terrificante in cui ai super ricchi del pianeta è concesso tutto, incluso il diritto di distruggere la casa comune dell’umanità per un’idea di profitto che sconfina nell’osceno.

Di buono c’è che la solita «sinistra liberal iscritta all’Internazionale dei benestanti non ha più ragion d’essere, è finita» (cit. Paolo Desogus). Qualsiasi sfida si voglia lanciare al neoimperialismo yankee, non dovrà ammettere ulteriori ipocrisie e, soprattutto, dovrà trovare al più presto un radicamento sociale reale, forte e trasversale tra i ceti popolari europei, ovvero in quelle bolle cognitive che dovrebbero costituire il principale referente di qualsiasi sinistra e che manco per il cazzo voterebbero la guerra per procura in Ucraina (ribadita ieri dal dossettiano senatore piddino Graziano Del Rio) e il sostegno al genocida Netanyahu. Per dire.

Per la sinistra europea non ci sono più Draghi e von der Leyen da applaudire o l’ipocrita retorica umanitaria a cui aderire per farsi votare nelle ZTL mascherando la propria falsa coscienza. Se in Europa la saldatura tra popolari, socialisti e destra meloniana ha fatto sì che quest’ultima divenisse il garante politico del vincolo atlantico, l’unico modo per sfidarla è ribadire quello che in un post di qualche giorno fa Tommaso Nencioni ha chiamato il «vincolo interno» e cioè il legame tra masse e Stato. Tuttavia, se le masse votano per i loro carnefici, Houston abbiamo un  problema.

Ho sempre pensato degli americani che fossero un po’ come il cugino sempliciotto  con l’otto cilindri sotto il cofano della Camaro a compensare qualche disturbo della sfera affettiva e con la propensione a mangiare di merda. Peccato che, dopo aver rubato e massacrato per impadronirsi della terra altrui e aggiungere stelline grondanti sangue alla sua bandiera, il parente d’oltreoceano abbia scoperto di calpestare petrolio, gas, oro e altre cosette che gli hanno permesso di esagerare. E niente, da quel momento ha messo su certe arie da padrone del mondo che noi europei, gli inventori del capitalismo, scansate proprio.

Nel frattempo anni di “subornazione” attuata da media che glorificavano la narrazione padronale (vale anche per l’Europa) hanno generato bacini elettorali che votano chi promette ai ricchi di poter rubare di più e ai poveri di potersela prendere con qualcuno, immigrati, gay e minoranze varie, perché è ormai globalmente risaputo che se sei stupido, povero e senza assicurazione, la colpa è dei negri o dei latinos che non sanno proprio stare a farsi sfruttare a casa loro.

E adesso torniamo a parlare di quel che sta dietro la baracconata cafonal hollywoodiana dell’insediamento di Trump (e Musk).

Le parole, la gestualità e l’ambientazione  suggeriscono un po’ di riflessioni.

La prima: il capitalismo finanziario ha ormai fagocitato ogni declinazione possibile di destra promuovendola a gendarme della più feroce Restaurazione in nome del profitto dalla fine della WWII; dai neocon, passando per Milei e Meloni, fino al sottobosco sempre più nutrito delle destre antisistema, il clepto imperialismo USA pare aver sintetizzato in maniera incredibile plutocrazia e ribellione sociale.

La seconda: la “vision” di Trump, spiace per Draghi e von der Leyen, lungi dall’essere atlantista, è caratterizzata da un americanismo assoluto, «al di fuori di ogni condivisione con l’Europa e di ogni ostilità nei confronti di “imperi del male”, perché per Trump l’unico vero impero del male è individuabile nelle democrazie liberali“ (cit. Alessandro Volpi).

La terza: come conseguenza della considerazione di cui sopra, il valore di riferimento di Trump è «un nazionalismo viscerale ed assoluto che non è conciliabile con alcuna ipotesi di multiculturalismo tipico delle democrazie liberali. La nazione di Trump non ha nulla a che fare con l’illuminismo, con l’idea di adesione volontaria, e considera proprio le democrazie liberali come il principale avversario della nazione» (idem). Il lessico di Trump e la gestualità estrema di Musk sono quelle delle nuove (e vecchie) destre e la presenza di Meloni, Milei e qualche nazi doc al rito dell’incoronazione (perché di questo si è trattato) testimonia quanto la genetica della Presidenta sia lontana dai principi etici che hanno ispirato la Costituzione Italiana.

In conclusione quella di Trump appare a chi ha studiato un po’ di Storia come una nazione fortemente identitaria, fondata sul binomio sangue-ricchezza, con un apparato retorico easy che si traduce nel più feroce egoismo predatorio in cui il diritto e i diritti non hanno spazio alcuno. Conta solo essere vincenti e far percepire a chi proprio non ce la fa ad elaborare che i ricchi hanno sempre ragione e i poveri sono tali per colpa di chi è più povero di loro.

Come ha ben scritto di recente l’amico fraterno Marco Roatta, «l’umanità deve affrontare problemi di enorme complessità che richiedono (richiederebbero) soluzioni innovative, azioni condivise e coordinate a livello globale. Tutti noi dobbiamo (dovremmo) accettare nuovi modi di pensare e di agire per non essere travolti dalle mutazioni. E in tutto questo, davvero molte persone non si rendono conto dell’anacronistica inadeguatezza implicita nella definizione stessa di “conservatore”?»

Bisogna rimboccarsi le maniche, tenere duro e cercare di costruire l’alternativa a quello che non è il rigurgito fascista della Storia, ma il futuro scritto da un pugno di super ricchi feticisti del denaro.

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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