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In morte del campo largo

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Il Piemonte è un malato cronico

Le scelte delle amministrazioni che si sono susseguite negli anni, sia di centrodestra che di centrosinistra, hanno portato a un progressivo deterioramento del tessuto sociale. Torino vive ormai di Sindone, Savoia e foodification. Il declino dell’industria e del suo indotto non potrà mai essere compensato dal solo turismo o dalla robiola.

La progressiva privatizzazione della sanità, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti, impedisce a una larga parte di piemontesi non abbienti di accedere non solo alla diagnostica, ma anche alle cure.

La politica locale conferma quel che sono oggi le categorie tradizionali della destra e della sinistra a livello nazionale e come le si possa sintetizzare alla luce dei recenti eventi di voto di scambio e infiltrazioni mafiose: un blocco monocolore che campa per cooptazione ed è votato da meno della metà degli aventi diritto.

È tempo di restaurazione

Negli ultimi trent’anni l’avvicendamento in politica non ha fatto altro che proporre il cliché di chi raglia populismo bipartisan, con sgrammaticature alternate a certi richiami nostalgici, per dissimulare il ruolo di mero esecutore dei potentati manifatturieri prima, finanziari poi e della loro inevitabile saldatura in nome del saggio di profitto.

La realtà è che, passato un po’ di tempo dai proclami di prodiana memoria sui benefici diffusi della globalizzazione, le cose hanno preso una piega decisamente diversa: si lavora come prima, ma in condizioni peggiori, si guadagna meno, si spende di più e, se si lavora meno, è solo perché il lavoro è divenuto una chimera.

Ossessionati dall’io

La sinistra liberale, animata dall’ “ossessione dell’io”, ha contribuito ad alimentare un sistema di valori antipolitico, rinunciando al consenso “sociale” degli elettori per concentrare tutte le forze in un attivismo frammentario, perlopiù ripiegato sui diritti civili e portato avanti sicuramente con intenzioni nobili, ma incapace di intaccare la realtà perché allergico ai necessari compromessi della rappresentanza.

Questi vincono perché gli altri fanno pena

In sintesi: la destra vince in Italia (e in Europa) perché è più brava a fare politica? Certo che no!

La destra vince perché la sinistra in Italia o è cosa per ricchi trentenni/quarantenni ipergarantiti che parlano di cose che non conoscono, oppure è oggetto di riflessioni accademiche da parte di accigliati ed autorevoli esponenti del pensiero colto, ma poi il sold out in libreria lo fa Vannacci.

Lo scenario odierno infatti è quello in cui le destre vincono ovunque giocando in difesa del capitale e non perché hanno argomenti. Le sinistre, dal canto loro, vivono una dimensione di totale spaesamento e sconnessione dopo decenni spesi a rincorrere il privilegio e l’autoreferenzialità parolaia.

Fischio e palla al centro

Servirebbe tornare ai fondamentali: Partito e militanza. Vale a dire teoria ed elaborazione pratica. Questo se si volesse veramente voltare pagina per non continuare ad alimentare il misunderstanding che nasce dall’ostinarsi a inserire il PD nel mondo della sinistra.

Il punto è questo: chi scuoterà l’albero di gerontocrazia mista a ego ipertrofici o semplice carrierismo per domandare a pezzi della società di unirsi e mobilitarsi sui capitoli che dovrebbero distinguere un campo dall’altro: il diritto alla salute, alla scuola pubblica e a un salario degno.

Si tratta di porre con forza in campo progressista una rinnovata “questione morale”. È su chi se ne farà carico che non mi pare vi siano manine alzate di volontari.

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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