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Il governo Dragoni

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Da quando Giorgia Meloni è stata endorsata da quel vecchio bacucco di Biden e si è impegnata a portare voti ai conservatori europei capitanati dall’erinni von der Leyen, per il giornalismo da lecca italico non è più l’erede del fascismo, ma una liberale che si ispira a Margaret Thatcher.

Anche se da Senaldi a Borgonovo, da Capezzone a Sechi, da Sangiuliano a Vespa, tutti sono presi a creare la nuova “Fenomenologia dello Spirito” meloniano, passare da Almirante alla premier britannica più reazionaria del dopoguerra vuol dire, in concreto, andare più a destra.

Forse Giorgia Meloni non è “nazista nell’animo”, ma quando si presenta come colei che porterà il popolo nel palazzo – e che popolo! – si capisce bene la piega che il Paese sta prendendo.

L’élite italiana ha imparato da tempo a far leva sul populismo più becero. Con la guerra ha pure rispolverato il patriottismo per conto terzi, portando un lobbista delle armi a presiedere il Ministero della Difesa. In questo trend di restaurazione neoliberale Meloni rappresenta l’ennesimo investimento di chi pasteggia a Barolo, ma non accetta che i povery abbiano almeno diritto al Tavernello.

E allora si dia la stura alle fanfare contro il reddito di cittadinanza, i diritti dei lavoratori e le pensioni, presentati tutti come privilegi da sfaticati. In fondo il fatturato ha bisogno di schiavi, mica di persone! Per dare un sapore ancora più amaro al piatto, basta aggiungere una spolverata di patriottismo militarista, con tanto di divise, fanfare e manganelli tanto cari ai reazionari de noantri e si va a governare. Pardon, a comandare.

Ce ne sarebbe già abbastanza per rassegnarsi e stare a guardarli mentre abbassano ogni giorno l’asticella della decenza, se non fosse che proprio in questi giorni si legge sui giornali del rapporto di Mario Draghi e di quello di Enrico Letta sull’Unione Europea per far mutare il magone in porcone.

Siamo alla vigilia di una nuova contrazione della crescita economica mondiale e l’industria della guerra non basta da sola a sollevare il Pil degli Stati. La produttività dell’Europa arranca dietro quella di Usa, Cina, India, Giappone e Corea del Sud. Con la finanziarizzazione dell’economia non va meglio, perché i grandi fondi speculativi sono una giostra riservata a pochi e, quando gli stessi “attenzionano” un Paese, di solito va a finire con privatizzazioni a nastro.

A parte le dotte pagine di dissertazione filosoficoeconomica su quello che non è (e mai sarà) il Vecchio Continente, ciò che proprio non esce dalla Mont Blanc dei due professori è che il rilancio dell’Unione Europea possa passare attraverso l’unificazione dei salari a livelli decenti per tutti i lavoratori, l’eliminazione della precarietà e il rilancio dello Stato sociale con una sanità e un livello di istruzione che prevedano standard alti e garantiti a tutti.

Nella UE non manca certo la ricchezza per pompare risorse che riducano le disuguaglianze. Quel che manca è la volontà politica, cioè l’idea che la redistribuzione, lungi dal passare per improbabili rivoluzioni di stampo marxista (che spaventano solamente fini ideologi del calibro di Sangiuliano), possa invece farcela più facilmente attraverso il buon vecchio Keynes e la sua idea che la domanda crescente di beni e servizi, vale a dire la crescita e il benessere, possano essere alimentati dalla piena occupazione, da buoni salari e da una spesa pubblica ben gestita su asset irrinunciabili. Questo solo per ricordare ai kompagni da salotto che lo Stato sociale non è una prerogativa di sinistra, se poi presti le terga al sollazzo dei ricchi, ma l’esito naturale di un processo di consapevolezza di sé in una società che si dice evoluta.

È cominciata la rincorsa finale delle élite in vista delle elezioni europee e poco importa se vinceranno i conservatori o i fintoprogressisti. La ricetta del cuoco sarà la stessa: rigore in economia e Pil di guerra. In Italia l’architrave di questa tradizione culinaria è Mario Draghi e da ben prima che si puntasse sul pony Meloni per incanalare lo scontento dei molti rendendolo funzionale all’aumento di capitale dei pochi.

Diciamoci la verità: di fronte alla scelta tra fare il lord protettore della Repubblica, in attesa di più alti incarichi, e prendersi gli insulti dei tanti che non potranno più pagare le bollette e farsi curare, voi per quale opzione sareste?

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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