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Il fascismo è l’abito da cortigiano sfoggiato dai conformisti

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Fascista o antifascista, afascista o non fascista? Io faccio un po’ di fatica ad arrivarci, ma scusate, se e quando Giorgia Meloni ammetterà di essere antifascista, che cosa cambierà? Siamo sicuri che sia così importante scomodare ogni secondo l’antifascismo per fare felici intellettuali di sinistra fuori tempo massimo, leader di partito senza programma ed esteti della politica con il culo al caldo?

L’antifascismo non è una petizione di principio o a un abito da cerimonia da indossare ogni 25 Aprile e riporre il giorno dopo. Le lotte partigiane non furono certo una schermaglia estetica. La ferocia con cui venivano eseguiti i rastrellamenti, le torture e  le fucilazioni da parte dei nazisti, quasi sempre imbeccati dai repubblichini infami, non può essere declassata a effetti collaterali della guerra.

Chiunque prese posizione contro il fascismo, rimettendoci il lavoro, la casa, uno o più familiari o la sua stessa vita, stava metabolizzando in qualche misura il trionfo e la caduta di quell’Italia piccolo borghese che aveva visto nel Duce l’uomo dell’ordine e dei valori.

L’Italietta con le mire di conquista e gli scarponi di cartone, orgogliosa della  mediocrità di una classe politica che non seppe mai andare oltre il fez e le meschine ruberie dei suoi ras, rappresentava allora come oggi il prodotto di un’eterna incompiutezza culturale, sociale ed economica.

L’opposizione al fascismo fu per la prima  volta il frutto di lotte che emanavano dalle grandi aspirazioni sociali il cui esito farebbe rivoltare nella tomba chi si trovasse in questo tempo presente ad assistere al degrado dell’Italia dominata dal capitale finanziario, dalla smania delle privatizzazioni e dalla politica personalistica totalmente disancorata da una progettualità condivisa.

Con tutto il male che posso pensare della premier e della sua cricca di parenti/amici dal braccio ridicolmente teso verso una società che sta sprofondando nelle sue deiezioni, proprio non riesco ad accettare l’idea che siano il Mieli di turno o una radiosa armocromista ad andare a punto sull’antifascismo.

Allora va da sé che mi ritrovi più a mio agio  con chi assimila il fascismo strisciante non tanto alle puttanate di questo o quel nipote di zio Benny quanto alla mutazione antropologica causata dal consumismo e dalla “cultura” edonistica imperante. Se proprio vogliamo andare a cercare le cause del morbo che fa stare bene i pochi a spese dei molti, dobbiamo armarci di strumenti che vadano oltre l’individuare il problema negli strafalcioni lessicalnostalgici del ministro cognato o nei musicisti pensionati di ‘Gnazzio: tutta roba che fa folklore da e per fallocefali, ma paura anche no.

Decenni addietro Pasolini mise in guardia  da una forma di fascismo, subdola e insidiosa, intesa “come normalità, come codificazione del fondo brutalmente egoista di una società”. Un potere senza volto, senza camicia nera e senza fez, ma capace di plasmare le vite e le coscienze.

A distanza di oltre mezzo secolo i ricchi si sono accorti che la redistribuzione è un concetto superato in un momento di contrazione del modello economico che ci ha portato all’oggi e hanno optato per la Restaurazione.

Siamo tornati al Congresso di Vienna, altro che Liberazione!

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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