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Il venditore di sogni

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Alla fine il lutto nazionale si è risolto in uno spettacolo penoso.

Tra madonne piangenti imbottite di botulino, vecchie glorie di Mediaset e rappresentanti del governo alla perenne ricerca di un’inquadratura, viene da chiedersi se l’agiografia offerta a reti e masse unificate sarebbe piaciuta in primis al Cavaliere, tanto è risultata forzata.

Vanno dette subito due cose per sgombrare il campo dalla retorica dei pennivendoli a libro paga di Raiset: Piazza Duomo era tanticchio vuota rispetto alle attese e l’imposizione della combo funerali di Stato più lutto nazionale è sembrata più che altro l’espediente corsaro di “Silvia” Meloni per appropriarsi dell’eredità politica di Berlusconi.

La palette del crotalo

C’è una logica nell’armocromia di Meloni.

Rispetto a tutti i governi precedenti, quello attuale ha una particolarità unica. Per la prima volta, come ha acutamente osservato Gianni Cuperlo, <<a reggere il timone […] c’è la sola cultura politica rimasta estranea alla stesura della Costituzione e al patto repubblicano. Per la destra è qualcosa che ha un valore politico e simbolico enorme […]>>,

L’impressione è che su questo terreno la leader di FdI voglia furbescamente sfruttare il tema  dell’egemonia culturale non tanto “cooptando” Dante Alighieri nel partito del populismo reazionario attraverso  il ricorso alle scempiaggini ideologiche del ministro Sangiuliano, quanto cercando in un diverso assetto dello Stato e dell’equilibrio tra poteri  la legittimazione che, dopo Piazzale Loreto, la destra estrema non ha mai ottenuto.

Mi domando se non sia stato un autogol.

Berlusconi, ne ho scritto più volte qua sopra, viveva dal 2011 una condizione di inesorabile declino. L’avanzare dell’età, la progressiva perdita di lucidità politica, gli evidenti problemi di priapismo e i continui guai giudiziari, se non disturbavano i Boldi, le Zanicchi e quel popolino alla perenne ricerca di un capo, avevano sicuramente intaccato il carisma da re dei piazzisti.

Premesso che in Europa e oltre oceano Berlusconi è stato quasi sempre visto per quello che era sin dal ’94, vale a dire un evasore fiscale, finto liberale con il complesso del “self made man”, antieuropeista, atlantista di convenienza che esibiva con fierezza l’ingombrante fardello dell’amicizia con Putin e Gheddafi (di cui condivideva lo schema concettuale di base del consenso), allora va da sé che l’odore di incenso percepito l’altro ieri sia stato quello di una finale tutta giocata in casa. E persa.

Quello a cui abbiamo assistito è stato il maldestro tentativo di Meloni di legittimare un cambio di visione, solo che non avendone una consolidata propria, non poteva fare altro che riproporre il berlusconismo rivisitato in quella chiave arruffona (e arraffona) tipica dei fascisti del nuovo millennio.

Semo i ragazzi de ‘sta Roma bella

Spero di non sbagliare valutazione (gli italiani sono di una stupidità imprevedibile nel venerare il potere che se li incula), ma penso che Giorgia Meloni abbia commesso un errore politico: ha mostrato infatti tutti i limiti di chi sì è speso molto in passato ad urlare “contro” senza tuttavia costruire. Inoltre l’idea di imbastire una celebrazione vergognosamente ruffiana per ricavare ancora qualche briciola di quel consenso “basico” che arriva facile agli inizi, ha lasciato trasparire il limite più evidente di questo governo: l’incapacità di sostanziare in qualche misura i proclami.

Nel medio periodo la destra meloniana (il ministro cognato, l’ “ideologo” Sangiuliano e l’ “ardito” ‘Gnazio), continuando con l’andazzo attuale, perderà l’occasione di dare vita a una piattaforma repubblicana di stampo liberale che, lungi dall’essere condivisibile dalle mie parti, possa essere in ogni caso capace di mettere veramente al centro le istituzioni e non la triste nostalgia del Ventennio.

Intendiamoci, Berlusconi non è andato neppure vicino ad essere il De Gaulle italiano. La sua figura politica di riferimento, se proprio volessimo tentare un paragone, potrebbe essere il caudillo argentino Peron. Allo stesso tempo Meloni non ha neanche lontanamente la stoffa di un’ Angela Merkel. Tuttavia una cosa è certa: il crepuscolo del berlusconismo rinverdito da pagliacciate come il lutto nazionale, la “sostituzione etnica”, “le SS di via Rasella erano una banda musicale di semipensionati” e “Dante è il fondatore del pensiero di destra italiano” rischiano di essere richiami che vanno bene per intercettare il voto di pancia (ma anche più giù), ma sono zavorra per un possibile rilancio del Paese, seppur in chiave liberale.

Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere

L’esempio del Cavaliere non apre alcuna prospettiva futura per il Paese e la pochezza politica di Meloni non può che farla andare a traino su tutto, proprio come sta accadendo con l’agenda Draghi in politica interna e con quella Biden in politica estera.

Berlusconi resta Berlusconi, cioè la cattiva coscienza dell’Italietta che ostenta, rosica e non fa fattura.

Nel film “Loro” il regista Sorrentino immagina un dialogo tra Ennio Doris e il Cavaliere in cui il primo dice al secondo: “Noi siamo venditori! Noi convinciamo le persone, Silvio! Non ci alziamo dal tavolo della trattativa fino a quando i nostri sogni non sono diventati anche i loro”.

Sin dalla discesa in campo Berlusconi ha determinato non solo la sua identità politica, ma anche quella di alleati e avversari, costringendo tutti ad imitarlo per riuscire a stare al suo passo. A ben leggere l’Italia di questo interminabile presente, anche Meloni si sta muovendo nello stesso solco. O almeno ci prova.

Ecco, che i nipotini del qncə pensino che i loro fez sdruciti valgano quanto la bandana del più grande affabulatore della Repubblica fa un po’ sorridere. Per ora.

🌹🏴‍☠️

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    Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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