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Il successo di Vannacci è colpa nostra

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C’era una cosa ed una sola da evitare nella discussione sul libro di Vannacci: il tema della libertà di espressione. Ma Elly Schlein e il PD non l’hanno capito e si sono fatti bacchettare da Donzelli. Da Donzelli!!!

Come fu a suo tempo per la pessima campagna elettorale di Letta, ancora una volta la dirigenza piddina ha scelto la polarizzazione del Paese intorno all’ossessione per il fascio all’uscio invece di fare una battaglia culturale volta a riconquistare la parte meno armocromista e più basica della società.

Avendo a quasi sessant’anni un lavoro da difendere con le unghie e con i denti, sto andando a rilento nella lettura di Vannacci, ma a rischio di essere precipitoso nel giudizio, a me pare un pamphlet che sin dall’introduzione si propone di essere più un Mein Kampf de noantri (chi è andato oltre il titolo del libello di Hitler,  sa di cosa parlo) da usare come grimaldello concettuale da parte della destra meloniana che una risposta coerente ed argomentata alla supposta dittatura del politically correct.

Il libro, almeno per il momento, si presenta come una raccolta di luoghi comuni che nella testa deĺl’autore sono associati a realtà documentate. È un insieme caotico di invettive non molto diverso dai quaderni di John Doe, il protagonista di Seven. Tuttavia riesce laddove gli arabeschi concettuali e le “veroniche” del mondo intellettuale progressista non ci vanno neanche vicino, vale a dire nel far sentire una moltitudine di binari, fallocefali, rosiconi e odiatori da tastierino, ma anche di donne e uomini tristemente comuni, finalmente, compresi.

Nessuna delle affermazioni lette finora resisterebbe ad un minimo di fact checking, ma il punto non è questo. L’importante, per le categorie sopra citate, è trovare qualcuno che dia voce a un malessere sociale represso e dica loro: “ti capisco”. La prosa lineare di Vannacci rimette al centro il medioman italico aka l’uomo qualunque proposto da Guglielmo Giannini senza ricorrere a troppe pennellate filosoficoculturali. È un dare voce al diritto di non cambiare, di rifiutarsi di pensare che i mali del mondo siano anche collegati “agli apprezzamenti non richiesti sulle bocce della barista” (cit.), agli aforismi grevi sulla terza gamba dell’uomo di colore o all’ evergreen “ha fatto anche cose buone”.

“Il mondo al contrario” è un’occasione enorme, a sinistra, per comprendere davvero le paure di una parte di società che, a guardare bene, è ormai maggioranza. Se Schlein e un po’ tutta la bella gente di sinistra facessero maggiore attenzione al contesto, invece di parlarsi addosso, forse capirebbero che dietro la prova letteraria del generale c’è il tentativo, più o meno riuscito, di definire lo “stato dell’arte” della destra.

Meloni, quando non deve guardarsi dal fuoco amico dell’alleato Girasagre, si trova a fronteggiare le due anime del suo partito, quella più moderata e governista e l’altra più radicale e movimentista. Da un lato Crosetto e dall’altro Donzelli. Tra questi due poli la premier non prende mai una posizione netta. Ha infatti bisogno di non rompere con l’ala più identitaria, quasi sicuramente minoritaria, ma al contempo necessaria per non perdere i legami con la comunità da cui proviene e che l’ha portata a governare il Palazzo. Inoltre per mangiare il panettone anche il prossimo Natale, per continuare a fare arrivare i fondi del PNRR e per farsi benvolere dalla combriccola di megere europee capitanata da von der Leyen e Lagarde, Meloni sa altrettanto bene che le è necessaria un’ala governista, istituzionale ed euroresponsabile. Eccola allora barcamenarsi furbescamente tra le due rive del fiume destrorso per non perdere consensi vecchi e nuovi, per accreditarsi in Europa e per farsi prendere la manina da nonno Biden.

Ho la netta sensazione che anche sull’esegesi del libro di Vannacci l’opposizione riuscirà a giocarsela non male. Di più.

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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