Ascoltare Alessandro Giuli sta diventando più impegnativo del rendermi comprensibile Chiarasifaperdire Valerio. Tuttavia, a differenza di tanti che da sinistra pensano di avere una sorta di prelazione dinastica per il sapere, provo a mettermi nei panni dell’elettore medio di FdI alle prese con le supercazzole del neoministro della Cultura.
A un certo punto del suo discorso alla Buchmesse di Francoforte Giuli ha “prodotto” questa roba qua: «Posso dire che siamo qui per riaffermare la centralità “di quel che si può chiamare pensiero solare” (Albert Camus, Nozze, 1939): il punto d’incontro tra la rigidità delle ideologie che si discioglie nella luce meridiana dello spirito mediterraneo, la luce tanto cara alla migliore tradizione estetica tedesca. Quella luce in cui la nostra “Filosofia del limite” rende compatibili e feconde le parole “Giustizia e Libertà”».
Così, mentre il traduttore della lingua dei segni crollava a terra con le mani intrecciate, il pippone di Giuli mi ammorbava il ragionamento con gli echi del pensiero di un altro dandy fascioesoterista, Giulio Cesare Evola. Poi ci sta che io non abbia capito una beata minchia e che a tessere le fila di tanto elucubrare fosse veramente Camus.
In realtà poco importa che siano Evola, Camus o Salcazzo da Velletri a ispirare l’eloquio forbito di Giuli. Quello che conta, nel concreto, è che la prosa enfatica non va molto oltre il tentativo di difesa del privilegio e della macelleria sociale del governo dissimulandoli dietro un velo di paroloni che sanciscono una sorta di pendulum oscillante di continuo tra l’impianto teoretico che fa capo alla destra sociale e i pilastri concettuali del neoliberismo.
Le difficoltà che una destra come quella di Giuli ha nel conciliare il sostegno di binari e nostalgici ricorrendo ai toni del fascismo di sinistra, vale a dire di quell’ideologia che insiste sulla necessità di preservare il tessuto sociale dalla disgregazione indotta dal capitalismo, sono molteplici e per molti aspetti inconciliabili. Senza andare a scomodare la pletora di intellettuali “de sinistra” che, nello spiegare Giuli all’apericena in ZTL, arriverebbero a superarlo in astrusità, citazionismo e asterischi, ci limitiamo qua sopra a fare un po’ di sintesi per facilitare la comprensione.
E allora che dire, se non che il tentativo di trovare un filone narrativo alto, la cosiddetta Gemeinschaft (il complesso di credenze, valori e ruoli vissuti in modo organico) tanto cara all’uditorio a cui l’ospite d’onore della Buchmesse (!) si stava rivolgendo, cozza con l’esito finale che è quello di gettare concetti in un calderone indifferenziato in cui galleggiano insieme Gramsci e Mishima, Pasolini e Vico, Olivetti e Vittorini, Camus ed Evola. Il tutto condito da un inclusivismo alla viva il parroco alternato alla retorica da Istituto Luce. È così che la pretesa egemonia culturale della nuova destra fa capolino tra un “dux mea lux” e un rutto in osteria (quando non prenota il Girasagre): con prodigi concettuali come l'”infosfera globale”, “l’ontologia intonata alla rivoluzione permanente” o “la centralità del pensiero solare”.
Come ha detto qualcuno, fare cultura dovrebbe voler dire esprimere pensieri alti in modo chiaro, mentre Giuli, nel tentativo di propagandare il “Made in Italy” meloniano senza dimenticare il vincolo di bilancio, fa del linguaggio ricercato il dito da guardare mentre la luna resta la diffusione preoccupante di idee reazionarie e potenzialmente antidemocratiche a cui le élite europee paiono aderire per convenienza prima ancora che per convinzione.
Ad ogni buon conto, se è possibile esprimere una preferenza concettuale, la mia va decisamente a quel “bun umet” di Genny Sangiuliano. Ma c’è davvero da sorridere di quest’accozzaglia di personaggi che sembrano usciti da Amici Miei, oppure c’è sotto qualcosa di più inquietante? Senza contare che la supercazzola prematurata ha perso i contatti col tarapia tapioco.
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