Chi vince festeggia, chi perde spiega
Dario Franceschini, main sponsor di Elly Schlein, sostiene in un’intervista su Repubblica che la Caporetto del PD (più frattaglie) non deve indurre a commettere “l’errore di ingabbiare Schlein”. L’ex segretario dem si dice pure convinto che si debba “usare questo periodo (quello delle tortorate elettorali a nastro?) per preparare terreni comuni con i potenziali alleati a partire dalle battaglie parlamentari”.
Se guardiamo i numeri, il quadro è abbastanza chiaro: il PD è al 21%, i 5* al 16,3%, Verdi più Sinistra Ecologista (le frattaglie) al 3,4% e +Europa al 2,4. Dulcis in fundo ci sono Cric&Croc, il duo dei sedicenti riformisti Calenda e Renzi, che insieme arrivano al 6,8%.
Ciascuno può divertirsi come crede a combinare queste percentuali, ma appare chiaro che solo l’(improbabile) unità di queste forze potrebbe essere competitiva nei confronti della destra. In ogni caso è evidente che senza il partito di Conte, piaccia o non piaccia, non si va da nessuna parte.
Facciamo un passo indietro
A sancire la vittoria di Schlein alle primarie del PD è stato non solo il voto dei simpatizzanti di sinistra che non si riconoscono nei circoli e nella nomenklatura piddina, ma anche quello di “arrivati”, unicorni in salsa liberal, ex sardine innamorate della retorica del bello e varie gradazioni di rossobruni con il culo rigorosamente al caldo: un parterre quanto mai variegato.
Tuttavia, nei tre mesi trascorsi dall’elezione alla segreteria, Schlein ha evidenziato, con supercazzole concettuali ed arabeschi lessicali, la sua scarsa attitudine al ruolo di leader. Non è tutta colpa sua, come vorrebbero far credere i tanti, troppi capataz di fede renziana che continuano ad intossicare il PD, condannandolo a perdere nunc et semper.
Chi teme che un alleanza sui territori con Conte possa far andare il PD nella direzione di una forza populista e fargli perdere voti, dovrebbe almeno riconoscere a Schlein di avere ristabilito una debita distanza in termini di consenso elettorale rispetto ai 5* proprio sui temi sociali. A differenza di quanto (non) è stato detto da chi l’ha preceduta, Schlein ha parlato in modo abbastanza chiaro di lotta alla povertà da lavoro, di sanità e scuola pubbliche e ha addirittura toccato il tabù della tassazione dei patrimoni. Su guerra e inceneritore si è certamente incartata, ma il primo è un tema obiettivamente tosto per chiunque non abbia il coraggio di dire apertamente che la politica estera di guerre per procura degli USA ha rotto il cazzo. Il secondo rischia di mettere in crisi uno dei pochi capisaldi che ancora può vantare il PD, vale a dire la Capitale.
Tra il dire e il fare
È vero che troppo spesso a sinistra si cammina sulle uova, cercando mediazioni infinite e sintesi impossibili tra posizioni inconciliabili, finendo per parlare tanto senza dire nulla. La destra questo non lo fa mai. Sui fondamentali FdI, Lega e FI sono sostanzialmente organici tra loro e verso gli elettori. A parte qualche minchiata del Girasagre, buttata lì apposta per non allontanare dal voto binari e fallocefali che fanno pur sempre numero, la destra sta trovando perfino la quadra tra il centralismo dell’ex MSI (il presidenzialismo come metafora dell’uomo forte al comando) e il regionalismo della Lega.
Al contrario, le continue incoerenze del PD si pagano con i discorsi mai chiari. Schlein questo lo sa e sa che deve invertire al più presto la rotta, se vuole durare. Purtroppo deve fare i conti con un partito fatto in massima parte di dirigenti che sull’ambiguità campano da almeno trent’anni. Inclusi quelli che ne hanno favorito l’elezione.
Vince chi meglio finge
Dopo l’ennesima debacle alle comunali è ormai più che chiaro che il problema in Italia non è l’innegabile vento di destra, ma la mancanza anche solo di un refolo d’aria a sinistra. E dire che in quel salone pieno di correnti che è il PD ci si potrebbe ammalare facilmente!
Ecco allora come si spiega la calma piatta quando si tratta di alzare le vele per andare a raccattare la legittimazione tra le genti.
Il problema è che se la linea di chi dovrebbe essere alternativo alla destra continua ad essere quella del liberismo, dell’atlantismo servile, del centrismo ottuso e dell’accattonaggio nella spartizione delle cariche (esemplare la vicenda delle nomine RAI), a condurre la goletta piddina sarebbe potuto benissimo restare il Cazzaro di Rignano.
Bandiera bianca
In Italia i dati sulla povertà sono drammatici: 5,6 milioni di persone vivono in povertà assoluta e 8 milioni in povertà relativa. Condizioni che riguardano quasi il 23% della popolazione. Le retribuzioni non crescono, l’inflazione le divora e la marcia verso il privato rischia di obbligare chi non ha un piano sanitario integrativo a ricevere cure di serie b o a non riceverle proprio. Lo stesso ragionamento è applicabile alla scuola.
La destra meloniana, nel fingersi paladina delle periferie, ha buon gioco nel portarle dalla sua parte, contando su tre decenni e più di adesione al modello neoliberista da parte della sinistra di governo. Il resto lo fanno l’indifferenza e la rassegnazione che costituiscono il partito di maggioranza relativa nel Paese (dato confermato dalle comunali).
Un po’ di Flaiano e un po’ di Longanesi per non illudersi
Destra e sinistra, per capirci semplificando un po’ invece di imbellettarci con le perifrasi colte da ZTL o gonfiarci il petto con le frasi autarchiche del ministro cognato, sono un unico blocco sociale privo di colore che vota per sé stesso e campa per cooptazione. Quando può, non esita a farsi aiutare dal folklore che porta il voto di non pochi nostalgici dei marmorei busti del Ventennio e da quella parte sempre più ampia di disagio che non sa più a che santo votarsi per vedersi riconosciuto il diritto ad esistere in una società in cui chi ce l’ha fatta a farsi strada disprezza chi resta indietro e pontifica dal pergolato di cose di cui non sa un’emerita cippa.
A ben vedere, in Italia, tra (pseudo)riformisti di destra e (finto)rivoluzionari di sinistra non c’è alcuna differenza: i primi non fanno le riforme, i secondi non fanno le rivoluzioni. Tutti però hanno i loro quindici minuti di celebrità.
Peccato solo che siano anche troppi per un paese sull’orlo del baratro.
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