Mentre le condizioni di Silvio Berlusconi restano gravi, nessuno scommette più sul futuro di Forza Italia, indipendentemente da quale sarà il decorso della malattia del più grande flagello d’Italia dopo il fascismo (e quello odierno di ritorno).
Non è una coincidenza che negli stessi giorni dell’agonia di un satrapo si stia consumando per linfoma leaderistico un altro soggetto politico, il Terzo Polo.
Questa volta a far scoppiare il merdone è stato il cigno dei Parioli. Attraverso il collaudato e meschino ricorso in politica alla “fonte autorevole”, l’altro ieri Calenda ha riversato all’Ansa tutto lo scontento nei confronti dell’ingombrante alleato.
La sintesi: “Basta con i tatticismi. Matteo Renzi non vuole sciogliere Italia Viva per confluire assieme ad Azione nel partito unico liberaldemocratico, non vuole finanziare il nuovo soggetto e le campagne elettorali”.
Il timore di Calenda è che Renzi, ora che ha intrapreso l’avventura del Riformista in qualità di direttore editoriale, voglia frenare sulla casa comune dei liberali e attenda lo sviluppo degli eventi, in primis la morte di Berlusconi.
A far insospettire “Clouseau” Calenda sarebbe stata anche la decisione presa da Renzi lo scorso dicembre di accentrare su di sé, come presidente del partito, tutte le deleghe di Italia Viva: perché una scelta del genere se si sta andando verso la costruzione di una casa comune previo scioglimento?
A monte di tutte le beghe, per come la capiamo noi che non giochiamo in prima base, vi sarebbe proprio la questione dello scioglimento di IV e Azione in vista del partito unico e la messa in comune dei finanziamenti per affrontare la campagna elettorale per le europee del 2024: non si può arrivare al partito unico del Terzo polo, o come si chiamerà il nuovo soggetto politico, senza prima sciogliere sia Azione che Italia Viva.
“L’obiettivo e i tempi per la nascita del nuovo soggetto sono già stati condivisi”, ha ricordato a nome di Calenda l’ex ministra berlusconiana Gelmini, ora in Azione. Insomma, non è questione secondaria che dietro tutto l’ambaradan di disinnamoramenti ci siano i soldi.
Nonostante sia pompatissimo dai giornaloni padronali, Carletto non è un enfant prodige della politica. Il suo merito principale è l’essere figlio e nipote di qualcuno e, in quanto tale, essersi trovato la strada lastricata di occasioni precluse ad altri. Tuttavia, condividendo il piatto del 2% con Renzi, ha capito che a fare scarpetta vuole essere sempre quell’altro.
Meno accorto del Caimano di Rignano, alle politiche sparava grosso: “Puntiamo al 13%, Meloni non governerà mai e tornerà Draghi”, salvo poi incolpare gli elettori perché votarono tutti fuorché lui.
È pur vero che anche Renzi nello stesso periodo vaticinava come e più di Fassino: “Facciamo il botto, nel 2024 saremo primo partito, il M5S è morto”. Ma, anziché ridergli in faccia, i media prendevano sul serio i due mestieranti. Mitico in tal senso fu il profeta della borghesia degli arrivati, Gianni Riotta: “Il centro di Calenda e Renzi sembra ben vivo […] potrebbe animare a sorpresa la scena politica”.
Il fenomeno del leaderismo senza voti, ma con un po’ di soldi pubblici e le donazioni, non è nuovo in un Paese come l’Italia in cui l’elettorato è da tempo l’inutile orpello di un “laboratorio di totalitarismo moderno” (cit.).
Un caso minore, ma emblematico, fu qualche anno addietro quello di Polverini: nessuno se la filava, poi fu ospite fissa in un paio di talk show – Vespa divenne il suo main sponsor – e su quell’onda (ma sarebbe meglio dire “frequenza”) venne eletta presidente della Regione Lazio. Approssimativa ed ebbra di potere come la maggior parte dei podestà del neogoverno di nostalgici attualmente in carica evaporò presto, ma nel caso specifico si ebbe il buon gusto di chiudere la pratica.
Sui nostri due eroi borghesi un benigno oblio proprio non vuole calare. Almeno finché ci sarà un Riotta a tesserne le lodi.
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