Il bello di @ellyesse è che non l’hanno sentita arrivare e adesso non capiscono un cazzo.
Basta leggere qualsiasi quotidiano destrorso e relativi commenti dei vari Borgonovo, Cerasa, Belpietro, Minzolini, etc per rendersi conto dello stato di confusione in cui versano i Giorgiaboys.
Di questo passo la rivoluzione d’ottobre è cosa fatta.
In realtà non è facile capire se l’abbraccio tra Conte e Schlein, con la benedizione di “Papa” Landini, segna il tramonto della liberaldemocrazia e l’alba della socialdemocrazia rosé, un po’ sardina e un po’ rosa chemical.
Per ora abbiamo slogan e magliette. E anche la richiesta di dimissioni di Piantedosi.
A Torino siamo soliti dire: “Pitòst che gnente a l’é mej pitòst”. Sono portato a credere che questo tentativo di ricucire prima e seconda società – oh, è sempre Asor Rosa! – sarà cruciale per fare in modo che Libero, Il Giornale e La Verità tornino ad essere materiale per copricapi da decoratore o ruvidi accessori per nettoyage del tafanario nei cessi con i piedoni.
Al netto del solito sarcasmo nichilista, se cerchiamo di approfondire con la limitatezza dei nostri strumenti culturali, scopriamo che per gli studiosi del mercato del lavoro la frattura non era esattamente quella politica messa a fuoco da Asor Rosa, ma quella, soprattutto economica, fra le fasce forti e le fasce deboli dalla popolazione: da una parte i lavoratori, soprattutto maschi adulti, dall’altra i giovani, le donne e gli anziani, tendenzialmente esclusi dal mercato del lavoro in quanto meno produttivi.
Poco per volta anche la letteratura sul mercato del lavoro ha preso una piega un po’ diversa. Più che di esclusione, si è incominciato a parlare di precarizzazione, contrapponendo agli occupati garantiti, insediati in posti di lavoro sicuri (perlopiù pubblici), a tempo pieno e tutelati dai sindacati, il mondo sempre più diffuso delle occupazioni a termine, prive di tutele e di stabilità, tipicamente riservate ai giovani, alle donne, ma anche ad una parte di quaranta/cinquantenni “studiati” e non, ma ritenuti i primi troppo onerosi per aziende con l’ossessione del taglio dei costi e i secondi rimpiazzabili da un pc o da un macchinario.
La “seconda società”, nel giro di un quarto di secolo ha così cambiato pelle: da società degli esclusi, con il passare dei decenni è diventata la società dei precari.
È venuto il momento di prendere atto che, per come si è e/involuta l’Italia in questi anni, di società non ne convivono più due ma tre.
C’è la “prima società”, che qualcuno ha definito “società delle garanzie”, fatta di dipendenti pubblici inamovibili e di occupati nelle grandi fabbriche (quelle che restano) o in aziende ad alto contenuto di knowhow, tutelati dai sindacati e dagli ammortizzatori sociali.
C’è poi la “seconda società”, o società del rischio, fatta di partite Iva, piccoli imprenditori e loro dipendenti, artigiani, tutti più o meno precari, accomunati dall’esposizione alle turbolenze del mercato e dai capricci della finanza.
E c’è, infine, la “terza società”, o società degli esclusi, fatta di lavoratori in nero, immigrati ma non solo, disoccupati giovani e meno giovani, in perenne ricerca di un’occupazione e lavoratori scoraggiati che hanno perso definitivamente la speranza di sfamare la propria famiglia.
A questi ultimi come risponderà la ritrovata “saldatura” politica tra Schlein, Conte e CGIL?
Suggerisco i popcorn, purché siano quelli del Lidl.
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