Partiamo dalla fine
Il Tribunale dei ministri archivierà la pratica Al-Masri e, se non dovesse farlo, la solida maggioranza parlamentare che sostiene il governo negherà l’autorizzazione a procedere.
Succede che il governo dei patrioti si rende conto che trattenere in carcere e trasferire alla Corte penale internazionale (che ne aveva ordinato l’arresto) uno squallido tagliagole responsabile di crimini orrendi, oltre a quello di tifare la Juve, avrebbe generato cazzi da cagare per l’Italia. Allora lo mette su un volo di Stato e lo fa tornare nella tenda berbera.
Dai su, messa così non è davvero più semplice da capire per tutti noi che la falsa questione dell’avviso di garanzia versus comunicazione dell’iscrizione al registro delle notizie di reato? Penso soprattutto a come sarebbe possibile spiegarlo in altro modo agli elettori che hanno decretato con il voto democratico il successo di Meloni, sperando che una volta nella vita ne capiscano una.
In un eccesso di ottimismo si potrebbe persino arrivare a credere che in un paese in cui c’è ancora chi, pur non avendo specifiche competenze in tema di diritto penale e costituzionale, si sforza di andare oltre la propaganda del politico di turno, arrivando in questo modo a comprendere che nel momento in cui una procura riceve una denuncia nei confronti di un ministro, incluso il Presidente del Consiglio, la legge – non i comunisti – prescrive di inviare gli atti al tribunale dei ministri competente “omessa ogni indagine“, vale a dire prima di poter compiere qualsiasi tipo di valutazione. A questo punto, la procura deve comunicare al ministro interessato (o al PdC) di aver inviato gli atti al Tribunale dei ministri. Esattamente come è avvenuto per Meloni. La differenza sostanziale è che questa comunicazione – detta “di iscrizione al registro delle notizie di reato” –non è un atto che fa parte dell’indagine, mentre un avviso di garanzia sì.
È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un fan di zio Benny capire qualcosa
E “chissenefrega”, dicono i balilla, scrivendolo proprio così sui social, con le doppie di rito e tutto attaccato. Poi aggiungono frasi ad effetto come “Giorgia cammina a testa alta” (momento nostalgico), “È un complotto delle toghe rosse” (momento Silvio) e “Preghiamo per lei” (momento yo soy cristiana). Inutile insistere.
Invece qualcuno che non usa solo la bocca per dare aria al culo ragiona un po’ su e, senza essere un principe del Foro, alla fine arriva a dirlo: il cuore del problema non è il crimine di lesa maestà che Meloni vorrebbe introdurre nel nuovo codice Rocco accanto al premierato forte, ma la gestione del flusso incontrollato di migranti in arrivo da anni sulle coste italiane e le scomode rivelazioni che potrebbero arrivare dalla feccia come Al-Masri sugli accordi sottoscritti da questo governo e da quelli precedenti, inclusi quelli di sinistra con protagonisti Minniti e Gentiloni.
Ovviamente la pletora di parole e d’inchiostro profusa in questi giorni finirà nel nulla e le probabilità che il governo cada per questa cosa del tagliagole sono addirittura minori di quelle che ha l’asteroide YR4 di impattare con precisione chirurgica su Palazzo Chigi.
Così, per ingannare il tempo mentre guardiamo il cielo, possiamo ricordare un vero pro del crimine libico, il colonnello Gheddafi. Prima di essere trascinato ancora vivo per mezza Sirte legato dietro una camionetta, il tiranno fu il controllore dei flussi migratori e il carceriere dei migranti, almeno fino a quando quel democratico sui generis di Obama, con la complicità di inglesi e francesi, decise di brasarlo. Mal ne incolse all’Italia, un po’ meglio è andata al troiaio delinquenziale che è emerso dalla guerra civile e dal “chi comanda su cosa” in cui la Libia è sprofondata dopo la morte di Gheddafi.
Come ricordava Alberto Negri su Il Manifesto qualche giorno fa, «ammantato e imbellettato da accordi internazionali che dovrebbero fornire una copertura di legalità, il sistema libico consiste in un meccanismo di corruzione che prevede il versamento ai libici di somme di denaro da parte dell’Italia e dell’Europa in cambio della repressione violenta dei flussi migratori».
Per farsi belli davanti allo specchio del loro acume, gli Arditi meloniani hanno un bel parlare di “difesa dei sacri confini della Patria”, ma quella che hanno rimediato è soltanto la stessa figuraccia che sarebbe potuta toccare a chiunque abbia governato questo paese negli ultimi venticinque anni. La differenza con quegli altri è che loro pensano ancora che la Libia dovrebbe tornare ad essere una colonia. Come ai bei tempi di Balbo e Graziani.
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