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Sull’estradizione di Emilio Scalzo.

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Abbiamo chiesto a Barbara Mezzalama, attivista di Fridays For Future e del Collettivo Universitario Autonomo di Torino, alcune considerazioni in merito all’estradizione di Emilio Scalzo.
Ecco il suo articolo per le nostre pagine.

Emilio Scalzo, attivista No Tav di 66 anni, è stato estradato in Francia nella mattina di venerdì 3 dicembre. Le vicende che hanno portato all’estradizione risalgono al 15 maggio 2021 quando in seguito una manifestazione No Borders a Claviere Emilio venne accusato di aver aggredito un gendarme francese. Per questo motivo l’attivista si trovava agli arresti domiciliari dal 23 settembre 2021, in forma di misure cautelari, e quindi senza essere mai stato portato a processo, senza aver avuto la possibilità di difendersi o di raccontare la propria versione dei fatti. Dal 1 dicembre al giorno dell’estradizione Emilio era inoltre stato trasferito dalla propria casa a Bussoleno in Val di Susa, al carcere delle Vallette di Torino, anche questo in forma preventiva e per “ragioni di ordine pubblico”: le autorità temevano infatti che la solidarietà del movimento No Tav avrebbe reso difficile, se non addirittura impossibile l’estradizione. Da giorni infatti era sorto davanti a casa di
Emilio, un presidio permanente da cui ogni giorno passavano dozzine di persone.

L’operazione a sorpresa è avvenuta in grande stile, con decine di agenti della Digos e alcune cellulari che hanno bloccato la strada statale per impedire ai solidali di raggiungere Emilio per un ultimo saluto. Nonostante questo alcuni abitanti di Bussoleno, tra cui la storica attivista Nicoletta Dosio, sono riusciti a raggiungerlo e a non farlo sentire solo in un momento tanto delicato.

Ciò che colpisce di questa vicenda è l’enorme sproporzione tra l’accusa, aggressione a un pubblico ufficiale, e le misure adottate, arresti domiciliari preventivi con successiva traduzione in carcere e un mandato di cattura internazionale. Non è la prima volta che attivisti del movimento No Tav subiscono un accanimento così esasperato rispetto all’effettiva gravità dei reati di cui sono accusati.
Un caso lampante è quello dell’attivista Dana Lauriola condannata a due anni di detenzione a settembre 2020, per aver parlato in un megafono durante un azione di protesta risalente al 2012. Oggi Dana non è più in carcere da qualche mese, ma si trova comunque sottoposta agli arresti domiciliari.

Un altro caso esemplare è quello di Maria Edgarda Marcucci, ritenuta un soggetto socialmente pericoloso per aver preso parte alla lotta curda contro l’invasione delle forze dello Stato Islamico in Rojava. Dal 17 marzo 2020 Eddie è sottoposta alle misure di sorveglianza speciale che le impongono pesantissime restrizioni: non può uscire di casa prima delle 7, avvicinarsi a qualsiasi locale pubblico dopo le 18 o rincasare oltre le 21. Non dispone di patente né di passaporto e deve sempre portare con sé un libretto rosso, su cui la polizia segna i suoi movimenti. Non può inoltre partecipare a pubbliche riunioni né entrare in contatto con persone che hanno processi in corso, cosa particolarmente difficile per chi fa parte del movimento No Tav. Si tratta quindi di una misura non tanto volta a prevenire la sua pericolosità per la capacità di maneggiare delle armi (cosa che chiunque dotato di un porto d’armi sa fare), quanto di un escamotage per impedire la sua azione politica inItalia.

La lista potrebbe continuare, ma ciò che appare evidente già da questo breve excursus è che la vicenda di Emilio non è che l’ennesimo eccesso di giustizia nei confronti dei membri di un movimento trentennale troppo rumoroso per le autorità, che cercano di silenziarlo attraverso procedimenti penali.
Emilio non è il primo italiano colpevole di solidarietà a subire un processo per aver tentato di aiutare persone migranti ad attraversare un confine o per averle accolte e curate. Nel 2019 a Trieste era nata un’inchiesta, archiviata qualche settimana fa, contro Gian Andrea Franchi, 85 anni, e sua moglie Lorena Fornasir, 68 anni, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per essersi presi cura dei migranti che passavano da Trieste percorrendo la rotta balcanica.

Ma siamo davvero sicuri che i colpevoli siano queste persone che si macchiano del crimine di essere troppo umane? Da troppi anni ormai l’immigrazione clandestina in Italia viene gestita come un’emergenza, con scarsissimi interventi organici e pochissimi finanziamenti da parte dello Stato volti a migliorare effettivamente le condizioni di chi è costretto a fuggire dal proprio paese. In una situazione simile, come scriveva Bertolt Brecht “quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere”.

Quello che le autorità sembrano ignorare è che, se oggi ci si riferisce all’immigrazione come a un’emergenza, domani se ne dovrà parlare come di una catastrofe. Secondo l’UNHCR infatti nel 2019 quasi 25 milioni di persone sono state costrette a lasciare la propria terra a causa della crisi climatica e questo numero è destinato a raggiungere le 200 milioni di persone all’anno entro il 2050. La crisi climatica infatti non ha soltanto effetti immediatamente riconoscibili come desertificazione, carestie o alluvioni, ma può causare anche conflitti di portata enorme per la conquista delle risorse che si assottigliano sempre di più.

Come se non bastasse la Convenzione di Ginevra non prevede ancora la definizione di “rifugiato climatico” o “rifugiato ambientale” escludendo dal diritto d’asilo una fetta in sempre crescente di richiedenti. Una legge quindi non al passo con i tempi e con il mondo in rapido cambiamento in cui viviamo oggi, impreparata davanti alle sfide del nostro presente e ancor più del nostro futuro.
Di fronte a queste ingiustizie avremmo quindi bisogno di più persone come Emilio che senza paura hanno messo i propri corpi in prima linea nella lotta.

Per chi di noi l’ha conosciuto Emilio è una persona di una bontà sconfinata, che di fronte alle ingiustizie ha scelto di non voltarsi dall’altra parte; una persona che nella storia ha capito esattamente da che parte stare, e alle parole con cui la politica troppo spesso si è sciacquata la bocca ha deciso di rispondere con la pratica. A lui in questi giorni e soprattutto in questo 8 dicembre va tutta la nostra solidarietà, con la speranza di rivederlo presto tra le sue montagne per cui si è battuto tutta la vita.

Barbara Mezzalama

Ringraziamo Barbara per il suo contributo e ci rendiamo disponibili ad ospitare ulteriori testimonianze da chi vive realtà di frontiera e non accetta la narrazione securitaria presentata dalle istituzioni.

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