Erica Onnis è research fellow presso l’Università di Torino. Ha un dottorato in filosofia e si interessa di filosofia della scienza, metafisica e filosofia cinese. Nell’autunno 2019 è stata “invited academic guest” presso la Wuhan University.
La storia che Erica racconta per il nostro blog parla della volontà di conoscere, indagare, sperimentare e di come questo proposito si sia rivelato un bene per tutti allorché un Isaac Newton non si accontentò di vedere cadere la mela dall’albero, ma si pose la fatidica domanda: “perché cade?”
La scienza è il più grande vaccino contro il virus della superstizione, del negazionismo e del #noncielodiconoh.
[ Pic1 – Johan Hultin che scava nella fossa comune di Brevig Mission nel 1997. Credit: Peter Hultin, pubblicata su: https://www.cdc.gov/flu/ pandemic-resources/ reconstruction-1918-virus. html?deliveryName=DM2873 ]
Negazionisti, complottisti, ma anche persone comuni non si capacitano di come, dopo un anno, la scienza non abbia ancora scoperto tutto quello che c’è da sapere sul nuovo coronavirus responsabile del COVID-19.
Insomma, un anno è un anno (sono dodici mesi!), sembra un sacco di tempo e ci stanno lavorando centinaia o forse migliaia di laboratori in tutto il mondo. Possibile che le migliori menti del nostro secolo non riescano a gettar luce sulla natura di un minuscolo virus, trovare un vaccino efficace al 100% e delle medicine che curino i malati? Dopotutto, per tantissime malattie abbiamo già un vaccino, cosa ci vorrà a trovarne un altro?
Ora, ci sono molte ragioni per cui tutto questo non è possibile e non sta a me, ma agli scienziati e ai divulgatori scientifici spiegarcele. Quello che però ho da poco scoperto e vorrei condividere è una storia straordinaria e inquietante allo stesso tempo che può incoraggiare un paragone fra le condizioni in cui si è verificata la pandemia influenzale del 1918 e quelle che ci coinvolgono oggi. Se si approfondisce la storia della medicina, infatti, si noterà che comprendere tutte quelle malattie che siamo riusciti a debellare (o controllare) non è stato per nulla facile né immediato, perciò pretendere che si trovi una soluzione rapida, indolore e definitiva alla situazione che stiamo vivendo oggi è quantomeno ingenuo.
La storia che vorrei raccontare ha come protagonista un medico svedese, il dottor Johan Hultin, e oltre a essere la storia di quest’uomo tenace è anche la storia di come gli scienziati abbiano cominciato a capire qualcosa del virus del 1918 (ma molto tardi, come vedremo).
Ora, i paragoni fra l’influenza spagnola e il COVID-19 si sprecano, eppure le differenze sono molte e non riguardano soltanto i virus coinvolti, ma il contesto storico e quello che dei virus si sapeva allora e si sa adesso: fattori determinanti che spesso perdiamo di vista.
Per esempio: ai tempi dell’influenza spagnola si era in guerra, quindi non solo non si pensava molto al distanziamento sociale o a chiudere le frontiere, ma le notizie non circolavano liberamente poiché in molti paesi la stampa era controllata. Non è un caso che l’influenza si chiami spagnola: non perché si sia originata lì, ma perché la Spagna, rimasta neutrale durante il conflitto mondiale, non censurava la stampa nazionale che diede quindi notizia dell’epidemia. A quei tempi, inoltre, non esistevano gli antibiotici (il primo, la penicillina, risale al 1928), perciò molte morti ascrivibili all’epidemia erano in realtà prodotte da infezioni batteriche a essa collegate che non potevano essere curate. Un altro dato ancora più interessante: fino al 1933 il virus dell’influenza non era stato isolato. Questo significa che fino a vent’anni dopo la fine della pandemia, nessuno sapeva che pesci pigliare. Con il COVID-19 siamo stati incredibilmente rapidi, invece: la notizia dell’isolamento del SARS-CoV-2 risale a fine febbraio/inizio marzo 2020, pochi mesi dopo la sua diffusione (pochi mesi contro venti anni!). E, si badi, questa rapidità è stata essenziale poiché quando il virus della Spagnola fu isolato era ormai troppo tardi: l’influenza era scomparsa (chi era guarito era guarito e chi non era guarito era morto) e non c’erano virus attivi da studiare. Questo significa che durante la pandemia del 1918 (così come nei venti anni che la seguirono) domande come: “perché il virus è così letale?”, “perché è così infettivo?”, “come ci si contagia?“, “come funziona?” e, soprattutto, “può ritornare?” non avevano alcuna risposta.
Cominciamo a sentirci più fortunati dei nostri bisnonni? Ecco.
Ora, quand’è che gli scienziati hanno cominciato a rispondere a queste domande? La risposta sembra inverosimile: quasi un secolo dopo la fine della pandemia. E il modo in cui ciò avvenne merita sicuramente di essere raccontato.
Johan Hultin, nato nel 1924, negli anni Cinquanta lascia la Svezia, suo paese natale, per andare a studiare in America. Fra i suoi compagni di corso si parla spesso di come il virus dell’influenza del 1918 sia stato un autentico mistero e che, con ogni probabilità, quel mistero non sarebbe mai stato chiarito. Poi, un giorno, un professore in visita all’università snocciola un’idea: forse quel virus può ancora trovarsi attivo da qualche parte.
Gli studenti scalpitano: “Dove?!”
“Semplice: nei cadaveri sotterrati nel permafrost che, data la bassissima temperatura, non ne permette la decomposizione!”
Nasce quindi la bizzarra idea di andare a scavare in Alaska e dissotterrare cadaveri non decomposti. E chi si offre? Johan, che probabilmente, essendo svedese, non ha alcuna paura del freddo e del ghiaccio del Nord.
[ Pic2 – La fossa dove furono seppelliti 72 degli 80 abitanti di Brevig Mission nel 1918. Credit: Angie Busch Alston, pubblicata su: https://www.cdc.gov/flu/ pandemic-resources/ reconstruction-1918-virus. html?deliveryName=DM2873 ]
Così il nostro parte su una serie di trabiccoli volanti sempre più piccoli e arriva a Brevig Mission, una cittadina di nativi di nemmeno 300 abitanti che era stata duramente colpita dalla pandemia (ne era morto il 90% della popolazione). Tutte quelle persone erano morte a pochi giorni di distanza l’una dall’altra ed erano state seppellite in una fossa comune in mezzo alla tundra. Johan si reca presso la fossa e comincia a scavare (operazione non semplice, dato il terreno ghiacciato) e, dopo un po’, trova qualcosa o, meglio, qualcuno: una ragazzina di circa 12 anni, praticamente intatta, quasi fosse morta il giorno prima. Con un misto di malessere ed eccitazione, chiama rinforzi e altri corpi, piano piano, vengono alla luce. Johan e colleghi li aprono, prelevano delle parti di polmoni sperando di trovarci il virus ancora attivo e si portano il malloppo in università, in Iowa.
Qualcuno ora starà pensando: e se il virus fosse stato davvero attivo? E se se lo fossero preso? E se avessero dato origine a un’altra pandemia?!? Eh sì, c’era questo rischio: ma erano gli anni Cinquanta e i protocolli di sicurezza per la manipolazione dei cosiddetti biohazard facevano acqua da tutte le parti. Comunque, per fortuna, non si scatenò un’altra epidemia perché i virus risultarono tutti morti. Nessuna nuova pandemia, quindi, ma anche nessuna nuova informazione su quella vecchia, poiché a quell’epoca un virus morto era completamente inutile alla scienza.
L’entusiasmo quindi precipita, la missione pare un completo fallimento e Johan non finisce il suo dottorato decidendo di iscriversi alla scuola di medicina e fare il dottore. Ma continua a pensare a questa storia, che lo ossessiona per decenni, finché, negli anni Novanta, mentre si gode la pensione spaparanzato sotto una palmetta in Costa Rica, legge un articolo su Science che lo folgora.
L’articolo riportava i progressi delle ricerche sul virus del 1918 di un tal Jeffery Taubenberger, che oggi lavora al NIAID, dove lavora anche Anthony Fauci. Cosa stava facendo Jeffery? Insieme alla sua collega Ann Reid cercava di ricostruire il codice genetico del virus, ma era in difficoltà poiché aveva a disposizione campioni malandati, tanto che la maggior parte dei suoi colleghi riteneva il suo lavoro inevitabilmente destinato al fallimento.
[ Pic3 – Jeffery Taubenberger e Ann Reid osservano la sequenza genetica del virus del 1918. Credit: National Museum of Health and Medicine Online Exhibit, pubblicata su: https://www.cdc.gov/flu/ pandemic-resources/ reconstruction-1918-virus. html?deliveryName=DM2873 ]
Così Johan, a distanza di quarantasei anni dalla sua prima missione in Alaska, capisce che i virus sotterrati nel permafrost, sebbene morti, sarebbero potuti essere utili almeno per il sequenziamento genetico e manda una lettera a Jeffery spiegandogli quello che aveva fatto in Alaska e suggerendogli che qualche buon campione potesse essere ancora sotterrato in quella fossa comune. Jeffery gli telefona non appena legge la lettera e si svolge una conversazione che immagino più o meno così:
“La tua è una grandissima idea, Johan, dobbiamo dissotterare di nuovo quei cadaveri! Scriviamo un progetto di ricerca e cerchiamo dei finanziamenti!”
“Jeff, se tu vuoi cincischiare, cincischia: io parto la prossima settimana. Ti spedisco i polmoni per posta ASAP”
E quindi Johan prepara lo zainetto in fretta e furia e riparte per Brevig Mission, dove, facendosi un mazzo epico (aveva all’epoca 73 anni), ridissotterra un sacco di cadaveri che però, a causa del surriscaldamento globale, sono quasi tutti decomposti. Ma Johan persiste e alla fine viene premiato poiché trova un corpo in buone condizioni, ricava dei campioni che gli sembrano idonei e li spedisce a Jeff.
Soddisfatto, Johan se ne torna a casa, e qui finisce la sua mirabolante avventura.
Epilogo.
Grazie ai campioni prelevati in Alaska, Jeffery Taubenberger e Ann Reid (coadiuvati dal loro team di ricerca) dopo sette anni di duro lavoro, nel 2005, terminano il sequenziamento del virus dell’influenza spagnola e da esso ottengono informazioni preziose.
Da dove arrivava il virus? Dagli uccelli, quindi l’influenza spagnola era una zoonosi proprio come il coronavirus.
E dov’era finito, dopo il 1920? Non era mai sparito: potreste avercelo in questo esatto momento, poiché si era trasformato in una banale influenza stagionale (il che significa che si era sviluppata l’immunità di gregge).
Ora gli scienziati stanno studiando il virus per comprenderne la mortalità e l’infettività, e per creare vaccini contro altri virus simili, così da scongiurare future pandemie. Ma per tutto questo ci sono voluti quasi cento anni, molti progressi scientifici e tecnologici e uno svedese cocciuto che a settant’anni suonati, di tasca sua, è partito per l’Alaska a scavare nel ghiaccio.
Il modo in cui la scienza ci viene talora insegnata a scuola o all’università (badando poco alla sua storia e alla sua evoluzione e focalizzandosi invece su formule, teorie e dimostrazioni che paiono assolute ed eterne) ci spinge a pensare che gli scienziati siano dispensatori automatici di “verità”. Tuttavia, ogni “verità” (che è poi un’ipotesi verosimile, verificata e coerente con tutte le altre già accettate) richiede indispensabili anni di studio e lavoro, prove ed errori, successi e fallimenti. E bisogna infine tenere a mente che ogni ipotesi è perfettibile, perché non esiste teoria scientifica che non possa essere migliorata, ampliata e meglio compresa alla luce di nuovi dati, nuove scoperte e nuovi strumenti.
La scienza è insomma una maratona e ogni maratoneta che si rispetti non può non incarnare preziose virtù quali la caparbietà, la resistenza e, soprattutto, la pazienza.