Ѐ bello pensare di essere una Repubblica, ma ancor più bello sarebbe esserlo veramente e al netto di ogni retorica da celebrazioni.
Come ricorda oggi Sergio Bagnasco, “in quel 2 giugno del 1946” non si sapeva se la Repubblica avrebbe “prevalso sulla Monarchia”, anzi in molti erano pronti a scommettere sul contrario. In realtà il 2 giugno aveva come obiettivo quello di tornare a votare potendo scegliere tra diverse opzioni. Quel giorno, insieme alla scelta della forma istituzionale da dare al Paese, si votò per scegliere i deputati dell’ Assemblea Costituente. “La vera decisione” scrive Bagnasco, “era che, Repubblica o Monarchia, sarebbe stata scritta una nuova Costituzione che avrebbe mandato in soffitta lo Statuto Albertino” e i vent’anni tragici appena trascorsi, creando attraverso un dettato di ispirazione democratica, laica e programmatica le condizioni per portare quel progresso mancato a lungo con i Savoia e assolutamente fallimentare con il regime fascista. Altroché “il duce ha fatto anche cose buone!” (Leggete, a questo riguardo, i due recenti saggi di Francesco Filippi)
Questo è il motivo per festeggiare oggi. A prescindere dall’esito referendario, quel che emergeva chiaramente negli intenti delle forze politiche che avevano ispirato la Resistenza era la necessità, resa viepiù necessaria dal recente passato, di condividere con il popolo italiano tutto, non solo la parte benestante, un progetto per il futuro in grado di portare progresso sociale inteso anche come riduzione delle disuguaglianze sociali ed economiche.
Ecco allora che essersi “liberati” dei Savoia e delle loro responsabilità oggettive in merito al via libera dato al fascismo è una cosa che ha reso l’Italia decisamente migliore. È però vero che la Repubblica vinse per pochi voti, dimostrando che il Paese avrebbe continuato a soffrire della storica spaccatura tra Nord e Sud che tanta fortuna in termini di manodopera a basso costo avrebbe portato, negli anni a venire, agli industriali del Nord.
Nella Costituzione della Repubblica Italiana, approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata il seguente 27 dicembre ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948, all’articolo 1 si dice che l’Italia è una “repubblica democratica fondata sul lavoro”. In questo senso i padri fondatori vollero attribuire proprio al lavoro il valore fondante di una comunità. Non essendo un dettato di ispirazione socialista, la proprietà privata è riconosciuta, così come è riconosciuta, quasi a voler mitigare gli eccessi del privato, la presenza dello Stato nell’economia. Nessuno intendeva allora demonizzare il profitto, così come nessuno intende demonizzarlo ora, a meno che il suo background culturale sia legato a modelli di sviluppo magari auspicabili in astratto, ma di improbabile realizzazione pratica.
Di questi tempi pare invece assai più ardua l’educazione non alla rivoluzione quanto al profitto responsabile. Senza profitto, nessuno si assumerebbe la responsabilità di diventare imprenditore e chi ha disponibilità di capitale vivrebbe ancora di rendita incipriandosi il faccione imparruccato. Luigi Einaudi diceva che “il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno”.
E senza sicurezza?
Purtroppo la “degenerazione” del modello imprenditoriale nel nostro paese ha abbassato di molto il significato delle parole dell’articolo 1 del dettato costituzionale fino a rendere necessaria, parlando per paradosso sia chiaro, una modifica dell’inciso “fondata sul lavoro” in “fondata sullo sfruttamento a bassissimo costo e in barba alle più elementari norme di sicurezza sul posto di lavoro”. Così, se il “Sol dell’Avvenire” fa parte di un’iconografia un po’ in disarmo, il diritto ad un’esistenza dignitosa, ma prima ancora il diritto all’esistenza, pare un limite oltre il quale l’asticella del lavoro non può essere abbassata.
Perché va da sé che il profitto sia proprio delle persone, ma le persone per il profitto pare veramente un po’ troppo. Sa un po’ di cipria, parrucche e ascensore sociale bloccato ai piani bassi. Certo non di Repubblica e meno ancora di festa.