Adil Belakhdim non è stato ucciso da un CEO, un AD, un MD, un CD o da qualsivoglia altro “acronimo” svegliatosi di pessimo umore. È stato ucciso da un autista.
La guerra tra poveri è il capolavoro della logica del profitto.
Tanto per fare un po’ di chiarezza, qui di seguito i bilanci di due colossi, quello dell’informatica Apple e quello della logistica FedEx. Quest’ultimo, per inciso, è salito agli onori della cronaca per gli eventi che hanno portato alla morte del sindacalista e lavoratore precario.
Il fatturato di Apple nel 2020 è stato di 274, 5 miliardi di dollari, praticamente in un anno più di tutto il Recovery Plan destinato all’Italia. Gli utili sono stati di 57,4 mld. Il fatturato di Fed per lo stesso anno è stato di 69,2 mld con utili di 1,3 mld.
Chi ha nozioni basiche di economia sa che il fatturato, cioè gli incassi, di per sé non vuol dire molto. In realtà è molto più significativo sapere quanto un’impresa guadagna e, in particolare, qual è il rapporto tra utile (o profitto) e incassi (o fatturato). È facile vedere dai numeri che Apple guadagna 57 miliardi, con un rapporto sul fatturato superiore al 20%, mentre Fedex ha un profitto di 1,3 miliardi, pari a meno del 2% del fatturato.
In poche parole: il margine di guadagno di Apple è enormemente più alto di quello di Fedex (oltre dieci volte). Inoltre, per arrivare a questi risultati, Fedex impiega circa 250mila dipendenti, mentre Apple ne impiega solo 150mila a fronte di un fatturato 4 volte superiore.
I prodotti Apple sono costruiti da fornitori terzi in tutto il mondo. Fedex, invece, è leader della logistica, un ramo del settore trasporti, vale a dire servizi. Abbiamo di fronte due campioni della trasformazione postindustriale, ma con una differenza importantissima: Apple guadagna moltissimo, FedEx ha margini risicati. Per dirla un po’ meglio: Apple è una società che produce un elevato valore aggiunto, Fedex opera in un settore a basso valore aggiunto. In pratica molti volumi, molto “giro”, ma pochi guadagni.
In linea con gli utili sono conseguentemente le retribuzioni: un dipendente di FedEx non guadagna quanto uno di Apple, neanche lontanamente.
Queste due imprese a carattere globale rappresentano bene l’economia post industriale, un’economia che genera al suo interno forti disuguaglianze. Nel mondo post industriale, con le fabbriche che chiudono, si è venuta generando una polarizzazione: si sono creati alcuni lavori Apple, ad alto valore aggiunto e molto ben retribuiti, e molti lavori FedEx, a basso valore aggiunto, quindi con scarsa retribuzione. E nelle condizioni dei dipendenti della logistica spesso abbiamo i riders, larga parte del personale della ristorazione, gli addetti alle pulizie, del commercio, le badanti e così via.
Per dirla sinteticamente e in modo forse un po’ (troppo) semplice, con l’economia post industriale tendono a sparire i lavori medi, quelli dell’industria, a fronte della crescita di pochi lavori “ricchi”, quelli di Apple – e di molti lavori “poveri” , quelli riconducibili a FedEx. Questo processo genera, dal punto di vista economico e politico, una serie di conseguenze terribili:
1) Le disuguaglianze crescono. Come diceva Olivetti: «Nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo». Oggi, in certi settori, siamo sopra le 100 volte e anche molto oltre.
2) Dal punto di vista sindacale si creano immensi problemi. In caso di alto valore aggiunto, le rivendicazioni salariali sono quasi sempre riconosciute. Nel mondo del basso valore aggiunto le rivendicazioni salariali si scontrano contro il muro della mancanza di risorse da redistribuire. Con lo spettro, nel caso i profitti si riducano a zero, di un ridimensionamento dell’attività e l’epilogo scontato dei lavoratori in mezzo ad una strada.
3) Nel mondo del basso valore aggiunto nascono i cosiddetti working poors. Nel mondo industriale del secolo scorso il povero era il disoccupato, ma chi aveva un impiego da otto ore al giorno campava decentemente. Senza lussi, diciamo una vita appena dignitosa. Oggi invece moltissimi lavoratori, per un impegno di otto (o più) ore al giorno, riescono a malapena a ricavare uno stipendio di poco superiore alla soglia di povertà, individuata per un single in circa 730€.
Di cosa stiamo parlando quindi?
Dell’autista che forse stava un po’ più su nella piramide degli sfruttati rispetto ad Adil, il sindacalista che di sfruttamento parlava e lo subiva in prima persona? Parliamo anche di questo.
Tuttavia la prospettiva nella quale inquadrare il ragionamento sulla morte di Adil dovrebbe essere osservata almeno da due angolazioni, per arrivare infine a scoprirle convergenti.
La prima: come mai si generano così tanti lavori a basso valore aggiunto la cui remunerazione è, di fatto, la soglia di povertà o poco più?
La seconda: questo è un momento di “aggiustamento” del modello di sviluppo o, al contrario, è una tendenza che ci accompagnerà nei prossimi anni generando sempre più disuguaglianze e, di conseguenza, tensioni sociali?
E ancora: esistono politiche a sostegno del lavoro nel nostro Paese o dobbiamo limitarci a registrare un presente fatto sempre più di “compressione” dello stato sociale in cui le persone, quando hanno un lavoro non particolarmente qualificato, muoiono di, sul e per esso?
Se questo è il risultato dell’osservazione prospettica, si può dire allora che ci avviamo sulla strada assai pericolosa di una neoplebe che grida “abbiamo fame” dalla suburra, ma solo per essere intercettata dal demagogo di turno? Non sembra un film già visto in epoche neppure troppo lontane?