Le guerre tra poveri le vincono i ricchi. Sempre. Per questo i governi le alimentano.
L’occupazione di tutti i luoghi di sottogoverno da parte dei pretoriani di Meloni dovrebbe far capire ai democratici che siamo entrati in una fase nuova. E non è certo quella di Dante “padre della destra”, come vorrebbe far credere il ministro della “cultura” Sangiuliano.
La deriva classista e autoritaria in atto nel Paese non si combatte con lo sdegno da pergolato di rose o con i clic dei fotografi del bello, ma togliendosi i guanti del politicamente corretto per parlare un linguaggio meno armocromista e più socialista. Perché, “diggiamolo”, a chiedere oggi alle élite di risolvere la crisi a favore degli strati popolari o degli interessi di un concetto astratto di Paese, si fa una figura certo non migliore di quella che fa ogni giorno un noto Girasagre nel portarsi appresso la sua faccia lombrosiana.
Ricordiamoci che coloro i quali ancora ieri, 2 agosto, hanno avuto un travaso di bile al pensiero di riconoscere la matrice fascista della strage di Bologna, sono gli stessi che sostengono che i soldati tedeschi uccisi in via Rasella “non erano biechi nazisti delle SS, ma era una banda di semipensionati, una banda musicale”. Con questa marmaglia non si tratta. Non si discute. Si combatte frontalmente, senza paura e a viso aperto, anche da posizioni di minoranza. Senza timore di esser etichettati da personaggi come Belpietro, Borgonovo, Senaldi o Feltri come vetero sinistra.
Prima lo si capisce e meglio sarà.
A proposito di sinistra, vale la pena ricordare, come bene ha fatto quel saputello di Travaglio sul Fatto, che “peggio del governo Meloni che fa cassa sui poveri ci sono solo il Pd e le sue proiezioni editorial-giornalistiche” aka le testate padronali, “che difendono il Reddito di Cittadinanza e il salario minimo, ma solo perché il governo Meloni non li vuole”.
Al di là del momento storico presente, riconducibile ad un sussulto di “Restaurazione” padronale (i “lanzichenecchi” di Alain Elkann saranno annoverati a lungo come rappresentazione plastica di lotta di classe “à l’envers”), credo che stia montando, un tanto a paese, una marea che nasconde un’insofferenza profonda che non trova sbocco nei blocchi sociali ed organizzati storici di riferimento. Tuttavia, a differenza di quanto è accaduto in Italia, in cui per anni la sinistra ha fatto le stesse politiche economiche e sociali della destra, dando in pasto a sardine, unicorni e bella gente le sciocchezze della woke culture create apposta per frenare il conflitto, il tasso di antagonismo sarà destinato ad aumentare ovunque. È inevitabile.
È anche vero che, per superare la china della conflittualità che non porta oltre gli slogan e qualche vetrina rotta, ci sarebbe bisogno di Partito e di militanza, vale a dire di teoria e di elaborazione pratica. Questo se si volesse veramente voltare pagina per non continuare ad alimentare il misunderstanding che nasce dall’ostinarsi a inserire il PD nel mondo della sinistra.
Destra e sinistra di governo in Italia, per capirci semplificando un po’ invece di imbellettarci con le parafrasi colte da ZTL o gonfiarci il petto con le frasi autarchiche del ministro cognato, sono un unico blocco sociale privo di colore che vota per sé stesso e campa per cooptazione. La cartina di tornasole che verifica l’ “esperimento ” è Fassino, sette volte deputato, che vota pro vitalizi esibendo l’indennità parlamentare da 4.718 euro al mese e nascondendo diarie e benefit che portano il totale a 13mila (o a 17-18mila per chi presiede commissioni).
La questione è sicuramente delicata e non andrebbe trattata con il solito sarcasmo nichilista di chi scrive. Noi qua però non stiamo a sorseggiare cocktail tra arrivati nei localini cool, ma al contrario andiamo fieri del nostro outfit popolano.
Allora diciamo le cose come stanno: il motivo per cui il mondo oggi è nel caos è che si amano a dismisura cose come il potere, il privilegio, gli oggetti che li rappresentano e si usano le persone.
Che lettura generale possiamo tentare di trarre da questo mood? Sicuramente quel che appare evidente è che un po’ dappertutto i liberali, quando non riescono a tirarsi appresso disperati, binari e fallocefali, alzano gli scudi della repressione e divorziano dalla democrazia. In Francia accade con il modello Macron, in Italia con quello “Melon”.
Come sostiene Tommaso Nencioni nel denso saggio dal titolo “Crisis. Non c’è che crisi. La permacrisis come modalità di governo delle nostre società”, edizioni Asterios, lo Stato neoliberale non si propone di governare la crisi, ma di governare attraverso uno stato di crisi permanente. La crisi non è l’evento traumatico che conduce ad una realtà rispondente allo spirito del tempo, ma è la normalità che informa lo spirito e le leggi del capitalismo reale contemporaneo, caratterizzate dalla impermeabilità alle rivendicazioni materiali delle classi subalterne, resecando in tal modo l’eccesso di (social)democrazia diffusosi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Meloni non deve inventarsi nulla: le basta copiare gli avversari.
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