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La nostra società persegue la democrazia anche nel pensiero: capire meno, capire tutti.

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Gli USA, quando non producono guerre per procura al fine di distogliere l’attenzione dalla voragine del loro debito pubblico, generano veri e propri paradossi della democrazia come Trump.

Eletto democraticamente fino a prova contraria, “The Donald” pone, con la declinazione di un nuovo messianesimo capitalista, una sfida che è il risultato del patriottismo basico che soffia nella Rust Belt come nei campi di mais dell’Iowa. È la pazzia economica che sta dietro lo slogan “MAGA” (Make America Great Again), vale a dire salvare la nazione dal gigantesco e non più sostenibile debito pubblico attraverso i dazi.

Per quello che vale a livello statistico, cioè niente, nel mio lavoro mi capita di venire a contatto con persone di altre nazionalità, alcune delle quali provengono dagli USA. Ebbene, da quando Trump è sceso in campo, ho parlato quasi sempre con suoi sostenitori, seppure non particolarmente “rushing for him”, oppure con ricchi dem sdegnati che hanno fatto i bagagli e si sono trasferiti in Italia.

Al netto della mia esperienza di misuraviste che interagisce con chi gli siede davanti per esercitare un po’ l’inglese claudicante, un articolo di Elena Molinari su L’Avvenire dell’11 febbraio 2024 descriveva bene le cinque categorie che riflettono la frammentazione dei repubblicani a livello nazionale.

Ci sono i moderati, che sui temi sociali come l’aborto, la famiglia e l’immigrazione hanno un indirizzo progressista e tendono ad essere benestanti e laureati. È l’unico gruppo (minoritario) apertamente contro Trump. Seguono i conservatori tradizionali alla Reagan, un gruppo un po’ più numeroso, che si oppongono all’aborto e difendono il libero mercato e i tagli alle tasse. Non amano Trump, ma lo votano per convenienza politica. Sono favorevoli agli aiuti all’Ucraina e a gestire, non fermare, i flussi d’immigrazione, consapevoli che il Paese ne ha bisogno. Poi ci sono i delegati rappresentanti delle tute blu, il terzo gruppo, che tendono ad essere populisti e trumpiani. Sono anche bianchi, ostili agli immigrati e alle leggi che favoriscono neri, ispanici e tutte le minoranze. Molto conservatori su questioni economiche e razziali, sono sorprendentemente moderati su aborto e matrimonio gay. Non manca la destra, lo zoccolo duro di Trump, convinta, sulla scia del suo beniamino, che l’America sia sull’orlo della catastrofe e che vada salvata con metodi radicali. Infine si arriva ai libertari, altra minoranza, la cui la priorità è un governo meno invadente possibile e isolazionista in politica estera. Non amano Trump ma in parte lo sostengono, perché vuole ridurre la burocrazia statale e non immischiarsi in Ucraina o in Medio Oriente.

Il dominio di Trump sul partito repubblicano, ancorché sostenuto economicamente dai miliardari che si sono accodati al trumpismo, si fonda su un’alleanza, a volte scomoda e spesso tesa, che raccoglie elettori all’interno di quattro dei gruppi sopra descritti. Non so se uno come Rambo Rampini da Manhattan abbia scritto cose simili, ma è evidente anche a osservatori mediocri e senza titoli come il sottoscritto che questa è la novità che ha permesso a Trump di (ri)vincere.  Prima di The Donald, infatti, la corrente principale del partito repubblicano, determinante nella scelta dei candidati alla Casa Bianca, era composta dai conservatori tradizionali, dalla fazione moderata e da una parte dei colletti blu che Reagan aveva sottratto ai democratici negli anni Ottanta. Ora invece l’alleanza è tra classe rurale, operaia e l’ala più estremista. Il collante che li unisce è una visione profondamente pessimistica del futuro dell’America che va di pari passo con la convinzione che nel 2020 i democratici abbiano rubato le elezioni perché hanno capito che Trump avrebbe sfasciato il loro metodo elitario di controllo del Paese.

Forse, e dico forse, ciò che si è verificato almeno in parte nelle ultime elezioni americane è che la “democrazia” consente alla politica, se la politica è all’altezza del suo ruolo, di sfidare il potere finanziario che ha trasformato gli USA in un generatore automatico di conflitti che trovano la loro ricomposizione ideale nello strapotere delle Big Three. Trump molto probabilmente perderà la sua sfida, perché cerca di tirare dalla sua quel gaglioffo di Putin in funzione anticinese, ma se vi fosse un Trump “buono” che sfida la grande finanza per riequilibrare le disuguaglianze del mondo, potrebbe pure farcela. Non si tratterebbe di opporre al Capitalismo di Stato made in China un modello che ambisca a nazionalizzare la grande finanza, ma assai più semplicemente si potrebbe pensare di orientare le scelte della grande finanza laddove la politica, democraticamente espressa, crede sia bene per la comunità.

Il problema è che tanto la sfida di Trump quanto la resistenza della grande finanza finiranno per rivalersi sul nostro stato sociale che rischia di essere, in un modo o nell’altro, completamente distrutto. In un simile quadro, l’Europa avrebbe un’opportunità formidabile, se non fosse che è governata da un’élite di stampo ultraliberale che pensa di attirare la liquidità in mano ai fondi speculativi d’oltre oceano con la puttanata del riarmo. Avete sentito war der Leyen o le dee della guerra Kallas e Picierno parlare di avviare un grande programma di investimenti e di spesa pubblica volto ad abbattere le disuguaglianze, a favorire la transizione ambientale e a migliorare i consumi sociali? Ma certo che no.

In questo senso lo spostamento dell’asse economico e finanziario dagli Stati Uniti verso un’Europa che guarda alla Cina e riallaccia il tubo del gas russo, potrebbe avere, come ha scritto Alessandro Volpi, «il valore politico esplicito di superamento del modello costruito sulla ricerca del profitto come elemento pressoché esclusivo dell’esistenza individuale e collettiva. Soprattutto dovrebbe riportare in vita una dimensione pubblica di cui la Cina pare aver fatto propri, nel corso del tempo, molti tratti».

Per questo ci serve una nuova classe politica, ma non è così che andrà. Ci ritroveremo invece con la Difesa Europea (Donald vuole che ci arrangiamo) e con un ministro degli Esteri Europeo (Donald vuole parlare di dazi con l’Europa). Forse assisteremo pure al ritorno della spesa pubblica e della politica industriale, ovviamente europee, ma improntate al nuovo carro armato europeo e non ai sei o sette diversi che costruiamo oggi. Non mancherà il ritorno al potere di coalizioni centriste modello vecchia DC de noantri e Calenda, dopo tanta fatica, rimedierà il suo strapuntino. Magari non vedremo l”Europa del Manifesto di Ventotene, ma è assai probabile che assisteremo alla creazione di un sistema bancario unificato attraverso norme, fusioni e acquisizioni.

La tragedia delle democrazie moderne è che non sono ancora riuscite a realizzare la democrazia. Manca solo il nuovo De Gasperi/Adenauer/Monnet per salvare le apparenze.

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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