La baracconata olimpica, come scrive oggi lo storico e amico Francesco Filippi, nasce “come celebrazione del nazionalismo imperiale bianco”. Altroché la menata de “l’importante è partecipare”! Il nostro presente, fatto di devastazione culturale interpretata da gente che straparla (e scrive) di tratti somatici tipici, è divenuto ormai la rappresentazione plastica dell’inconsistenza della comunità fondata sul binomio etnia-suolo.
Per quello che si è visto e udito durante queste Olimpiadi, si può sicuramente affermare che, al netto delle intossicazioni da escherichia, gli stronzi e i ratti non erano solo quelli che facevano capolino dalle acque della Senna. Tuttavia anche i progressisti che esultano celebrando la bellezza morale della multietinicità, spiace dirlo, ma non vanno oltre lo sdegno patinato di retorica.
Partiamo dalla vittoria dell’Italia nel volley. Non tanto per il contenuto tecnico e spettacolare, seppure il dream team azzurro abbia atleticamente crepato di mazzate ogni avversaria, quanto per Velasco, l’unico comunista dichiarato presente ai giochi.
Quella del ct azzurro è una filosofia che è totalmente avulsa dai canoni neoliberali di vittoria. È invece più afferente al percorso della singola persona che si libera del fardello dell’individualità, incluso il colore della pelle, per sposare una volontà collettiva che sta alla base del risultato positivo. Basterebbe questo aspetto per fare una statua equestre all’allenatore argentino. Ma anche sforzarsi di vedere più la dimensione sociale dello sport di squadra e meno nero e neri dappertutto non guasterebbe. Purtroppo si sa che la polemica è l’unica cosa che più è sterile e più si riproduce. Proprio come la madre dei cretini.
C’è poi il medagliere, menu celebratissimo da cui il patriottismo paraculo al fotofinish di Giorgia, quello malsano del Girasagre e gli gnegne della sinistra unicornista scelgono ciascuno la propria portata di polemica definendo il contrappasso come neanche l’italianissimo Dante, padre della destra almeno secondo Genny Galileo Sangiuliano, avrebbe saputo fare.
Così, mentre i binari e fallocefali che costituiscono il grosso del serbatoio elettorale dei fascioleghisti continuano a guardare la Storia con i capoccioni inesorabilmente rivolti all’indietro, i progressisti vorrebbero essere neri, purché in combo con l’essere vincenti. Ma è un racconto uguale e contrario alle scemenze di Vannacci.
Dietro la fuffa bipartisan emergono in tutta la loro drammaticità le storture delle società contemporanee. Le nazioni della vecchia Europa, quando non sono in balia dei rigurgiti nazionalisti, sembrano non considerare che l’integrazione sbandierata dal progressismo di stampo liberal è in realtà la continuazione del trend coloniale con altri mezzi.
Dopo la predazione delle risorse dei paesi di provenienza e la riduzione in schiavitù di intere generazioni nei secoli scorsi, oggi l’Europa si lava la coscienza con lo sport vincendo medaglie grazie ad atleti rinazionalizzati in fretta e furia, oppure a quelli di seconda o terza generazione, anche se il gruppo sociale ed etnico a cui appartengono resta ai margini della società. È un fenomeno di tipica ipocrisia post colonialista bianca. Basta pensare alla legnata morale che l’ “americano” Jesse Owens diede a Hitler alle Olimpiadi di Berlino del ’36, ma prima ancora agli Usa dell’epoca che erano più razzisti del nazisti.
Ora non so a voi, ma a me la retorica fa sempre un po’ storcere il naso e tutto questo bello che si respira tra i democratici festanti per il colore della Egonu mi fa un po’ lo stesso effetto dei fan di Vannacci che proprio con il fluire del tempo non ci si raccapezzano. Ecco perché il contrappasso, dal latino “contra” e “patior”, soffrire il contrario, è il principio che meglio descrive le Olimpiadi della grandeur coloniale con le pezze al culo.
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