Società e Cultura

Chi ha paura del linguaggio inclusivo?

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manifestanti al Novara Pride

Frequentando ambienti femministi ed intersezionali, capita di incorrere nel dibattito sull’uso di un linguaggio più inclusivo, che oltre alla rimozione di espressioni sessiste, razziste o abiliste, preveda l’utilizzo di segni e forme ancora inusuali nel parlare e nello scrivere comuni. Spesso attorno a questi segni si scatenano dibattiti accesi fra chi ne sostiene l’importanza e chi quei segni non riesce proprio ad accettarli.
Abbiamo deciso di affrontare questo argomento chiedendo il contributo di un’amica di Ittica: la presidente di Novararcobaleno, Laura Galasso.
Ringraziamo Laura per il seguente scritto e vi lasciamo ad una lettura che sicuramente sarà spunto di riflessione per molt*

 

Linguaggio inclusivo. Di Laura Galasso.

Quando ci si pone l’obbiettivo di parlare di linguaggio inclusivo, solitamente arriva qualcuno (utilizzo il maschile generico perché solitamente si parla di un maschio etero cisgender) che si lamenta ed invoca un’ipotetica dittatura del pensiero unico e del Politically Correct.

In alternativa, ci si troverà di fronte il classico individuo colmo di paternalismi, che effettuerà tutto il mansplaining non richiesto, sottolineando quanto solo lui sia il vero puro detentore della saggezza della lingua italiana (in molti casi provando a chiedergli quali ultimi testi abbia letto, si rimane assai sorpresy nello scoprire che si tratta probabilmente di qualcosa di scolastico di moltissimi anni prima).

Ma per quale motivo esiste un così profondo rifiuto di alcuny e le reazioni sono quasi quelle di una lesa maestà? Che cosa si intende poi per linguaggio inclusivo?

In primo luogo, partiamo nel definire l’oggetto del nostro discorso, ovvero rendere la lingua italiana comprendente di tutta una serie di realtà che non possono essere ristrette al puro binarismo di genere e sradicare, nello stesso momento, quella parte profondamente sessista ed abilista incastonata nella sua struttura.

Non si parla quindi di sostituire semplicemente una desinenza, quanto di cambiare il linguaggio, per comunicare qualcosa di diverso e che aiuti nell’ inserire un tassello per la lotta all’eguaglianza.

Questo tipo di discorsi non sono nuovi e non sono una moda del momento, come molte persone sembrano voler credere, ma risalgono agli albori della lotta femminista (vedi ad esempio i testi di Alma Sabatini sul “Sessismo nella lingua italiana”) e forse anche prima. Sì, sicuramente siamo in un momento di cambiamento, in cui si stanno tastando varie possibilità al fine di trovare quella che potrebbe essere una vera e propria rivoluzione linguistica, ma la strada da fare è ancora tanta.

Vade retro neutro! ( o forse no)

Molte lingue, a differenza dell’italiano, fin dalla nascita hanno potuto usufruire di una declinazione neutra della maggior parte delle parole.

Il neutro, solitamente utilizzato per oggetti/animali non umani, è stato ben presto preso come canonicamente un metodo per parlare di “persone” generiche (riconoscendo il pari valore di ogni parte descritta) ed includere anche tutte quelle identità di genere non binarie.

Non avendo l’italiano una forma neutra rimasta nella modernità, sono tante le prove che si stanno facendo:

  • L’Asterisco (*): ormai entrato anche nelle comunicazioni universitarie. Ricorda un suono “muto”. Risulta però problematico per quel che riguarda i supporti alla lettura per le persone ipovedenti, poiché non tutti i lettori riescono ad interpretarlo e si finisce per creare cacofonie come “tuttasterisco”. Sicuramente non la scelta migliore, ma è entrato parecchio nell’uso comune.
  • La Schwa (ə): uno dei migliori suoni, è già presente in Italia dentro dialetti come quello napoletano. La ə, anche nel parlato è quindi fruibile senza particolari problematiche. Sta radicalmente aumentando il suo utilizzo, anche grazie studiose come la Prof.ssa Vera Gheno, sociolinguista, che ne sta analizzando in maniera capillare l’utilizzo e lo sta promuovendo anche nella saggistica. Risulta però problematica da un punto di vista di persone con alcuni tipi di disabilità.
  • La u per il singolare e la y per il plurale: anche questo metodo non è del tutto sconosciuto alla lingua italiana, ritrovando questo tipo di finali in diversi dialetti, ed è anche una delle metodologie che più si adattano a un tipo di testi scritti leggibili anche dalle applicazioni ed altri supporti per persone ipovedenti. Personalmente è una delle soluzioni che trovo più adeguate, in un’ottica di testi che devono essere accessibili a tutty.
  • La @, la X, il -, il_ e la W (ed anche altro): esistono poi una serie di varianti, purtroppo utilizzabili esclusivamente dal punto di vista della scrittura e che non raccomanderei data la loro impronunciabilità poi nel parlato. È interessante comunque saperli, per capire quanto ci si stia lavorando su e sia percepito, soprattutto da chi lotta per i diritti umani, come una necessità.

Il linguaggio sessista ed abilista (e chi più ne ha più ne metta)

La lingua italiana è bella, su questo non ci piove, ma come ogni forma di comunicazione, si è sviluppata attingendo dal patrimonio culturale e sociale dell’epoca, andando in realtà a modificarsi nel corso del tempo.

Permangono però modi di dire, frasi tacitamente utilizzate, il maschile utilizzato anche dove non sarebbe necessario. Ed esistono metodi per riuscire a scrivere evitando buona parte di queste cose.

Il primo passo però, ovviamente, è rendersi conto che come parliamo, come scriviamo, ha una sua importanza: non si tratta di sole parole. Da piccoli soprusi linguistici, stereotipi entrati nella quotidianità, si innesta la famosa piramide della violenza così tanto analizzata da chi fa ricerca in ambito sociale.

Così un dire frasi come “Sei sordo?”, “handicappato che non sei altro!”, “Ma che sei cieco?!”, a parte in alcuni casi scatenare l’ilarità ed in altri invece offendere, rinforzano da un lato l’idea che avere una disabilità sia una cosa terribile e riprovevole, dall’altra normalizzano delle microaggressioni verbali alle persone aventi veramente la disabilità, disumanizzandole e riducendole soltanto a quella loro caratteristica.

Lo stesso tipo di meccanismo si innesta quando si utilizzano frasi, riferite al genere femminile, come “donna, fammi un panino!”, “le donne sono soprattutto delle brave casalinghe”, “mamma mia che troia!”, “Sei propria una santa!” ecc…

Si parte dagli stereotipi più sessisti e si finisce per tacitamente accettare piccole discriminazioni che minano comunque la sicurezza e l’empowerment del genere femminile.

Da questi elementi del linguaggio più palesi, si passa però anche ad altri decisamente meno evidenti, come il maschile plurale utilizzato per qualsiasi plurale, anche quando le donne sono in maggioranza, e il problema con i suffissi in -essa che infantilizzano le professioni svolte dalle donne (motivo per cui dove possibile sarebbe utile utilizzare banalmente la -A).

Una soluzione ulteriore.

Al di là del neutro, esistono anche modi per non utilizzare continuamente il maschile, e riconoscere quindi ugual importanza anche agli altri generi, andando a creare brevi perifrasi o quella che chiameremo circonlocuzione.

Esempi:

– “diritti umani” o “diritti della persona” anziché “diritti dell’uomo”;

– “La Regina Elisabetta sovrana di 700 milioni di persone” e non “[…] di uomini”;

ecc…

Ovviamente, come in ogni cosa, bisogna che le persone abbiano l’accortezza di pensare prima di scrivere o parlare (oltre che la volontà di farlo). Sradicare secoli di abitudine non è semplice e non mi permetterei mai di pensare di farlo con solo queste poche righe.

Perché la polemica?

Al netto che non ritengo di aver parlato di un argomento proveniente da mondi paralleli, ma di incredibile attualità, non ho minimamente analizzato il perché esistono persone che fanno polemica a riguardo.

La farei breve, sperando di non risultare saccente, introducendo la questione del privilegio.

Poter permettersi di non cambiar nulla dello status quo, è proprio di chi – consciamente o meno – vuole mantenerlo.

Non riconoscere le voci altrui, pretendere che venga sempre ascoltata la propria, che si rimanga sempre in primo piano a discapito di tutto quello che sta accadendo attorno, è l’essenza stessa di chi è privilegiatu.

Così tutti questi discorsi vengono tacciati come “inutili” e nel mentre non si lavora per sradicare le problematiche patriarcali che affliggono in realtà più o meno tutty su livelli diversi, adagiandosi nel fatto che infondo si è quelly che non stanno così male, dimenticando la restante parte del mondo che invece lotta per quel minimo di rappresentazione.

Voler essere le uniche persone riconosciute e visibili rientra nei giochi di potere. Sminuire, denigrare e non ascoltare pure.

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