Sforzarsi di scrivere in giorni così drammatici, stando al sicuro in pausa pranzo dietro al pc, genera un senso di disagio e impotenza. Tali percezioni sono addirittura amplificate dall’essere consci della nostra posizione di assoluta marginalità. È solo che quel che ascoltiamo e vediamo non sempre ci convince e allora, con i pochi mezzi che abbiamo a disposizione, cerchiamo di fornire spunti di riflessione diversi.
Il nostro senso di inadeguatezza nasce in parte come riflesso alla lettura mainstream degli eventi, imbrigliata in una polarizzazione senza fine. Anche il colore dei calzini da indossare diventa l’occasione per spiegarne la scelta con le categorie binarie del Bene e del Male.
Siamo arrivati, forse per logorio dovuto all’impotenza, a semplificare così tanto il pensiero da ridurlo a due categorie: con t-shirt di Putin o senza. Impantanati nelle letture di comodo, perché così è tutto più semplice, rinunciamo a leggere la realtà e ad approfondire.
Ecco allora che da una parte ci si trova con i media e l’orchestra al completo di esperti, veri o improvvisati, a narrare la guerra come l’esito di uno scontro di civiltà: i buoni, gli occidentali, e i cattivi, i russi. Qualcuno più “saputo” gioca addirittura in anticipo la carta dei cinesi come sottocategoria del Male, tanto i prossimi scazzi saranno sicuramente con loro e per allora la Russia sarà stata assimilata o da una parte o dall’altra.
Dall’altro lato di uno specchio che riflette stereotipi non va molto meglio. Quando il progressismo di maniera non capisce più nulla, perché le categorie interpretative ideologiche cedono il passo ad una realtà terribilmente mutevole fatta sì di profitto, ma anche di pericolosi disturbi narcisisti della persona, ecco che vien bene dare la colpa agli americani. Del resto come si fa a sbagliare nel puntare il dito contro chi, nel bene e nel male, detta l’agenda del mondo? Sarà pure vero, ma ci sembra anche in questo caso troppo facile.
In un quadro viepiù desolante quel che viene a mancare è lo spazio per l’analisi delle cause del conflitto ucraino (e non solo), soprattutto da parte di chi avrebbe gli strumenti socio-culturali per farlo.
Eppure, senza stare a scomodare troppo le verbose riflessioni sui corsi e ricorsi storici, basterebbe ragionare partendo dal mondo pre e post 1989 e di quanto questo spartiacque della Storia recente abbia fatto da volano non tanto al miglioramento delle sinergie tra modelli culturali, economici e politici diversi quanto al progressivo deterioramento dei rapporti scaturito dagli Stati che ne erano (e ne sono) espressione.
È con questi e altri pensieri affastellati nella nostra testolina di “pacifisti col culo al caldo” che si affievolisce la speranza di vedere il dialogo prevalere sulle bombe.
Occorrerebbe oggi, non domani né poi, uno scatto di lucidità per ragionare di culture che si accettano nella loro diversità e che creano spazi di discussione e di azione politica. In particolare per quanto riguarda la politica dell’Unione Europea, non è stato fatto abbastanza perché fosse impedita la costruzione di un nuovo muro militare che ha isolato la Russia anziché coinvolgerla. Ci siamo accontentati, al solito, della mercificazione delle risorse economiche senza che lo scambio avvenisse anche al livello delle persone. E’ stato così che lo “sbirro” Putin ha preso il posto della casa comune europea voluta da Gorbaciov.
Siamo arrivati a cento secondi dalla fine. Come ce la vogliamo giocare?