Acqua, neve, freddo. Poco importa in che condizioni si trovino a lavorare, quello che conta è che effettuino la consegna il più rapidamente possibile.
I “riders”, i ciclofattorini che lavorano per diverse piattaforme di consegna di cibo e pasti pronti, vengono tutt’oggi inquadrati come lavoratori autonomi dalle multinazionali con cui concludono i contratti nonostante la loro dipendenza dal datore di lavoro sia del tutto evidente, essendo ormai presenti quegli indici di subordinazione che permettono di qualificare il rider come dipendente.
La giurisprudenza in materia è ormai arrivata a sostenere come non conti il nomen iuris con cui si qualifica il contratto, rilevando viceversa gli elementi effettivi del rapporto di lavoro, che permettono di comprendere se un lavoratore possa realmente definirsi autonomo o, in alternativa, sia assoggettato al potere del datore di lavoro.
La lotta dei riders, che ha avuto un’importante punto di svolta con la recentissima sentenza del Tribunale di Palermo n. 3570/2020 pubblicata il 24/11/2020 nella quale per la prima volta è stato riconosciuto, in capo a un riders, la qualifica di lavoratore subordinato, è uno snodo che permette di riflettere anche su un’altra importante tematica, quella del salario minimo garantito.
1. Gli elementi in concreto caratterizzanti il rapporto di lavoro dei riders
I riders, utilizzati dalle diverse società di consegna cibo, stipulano con le multinazionali dei contratti di lavoro autonomo, sono soggetti a basso reddito e rendono una prestazione ripetitiva e dai contenuti meramente esecutivi, garantendo in alcuni casi consegne 24 ore su 24, in altri fino alle 2 di notte.
Tutto il materiale necessario per lo svolgimento dell’attività lavorativa viene direttamente fornito dalla società e i fattorini sono tenuti a monitorare costantemente lo smartphone al fine di visualizzare in tempo reale l’arrivo di un ordine, i tempi di consegna e il percorso in base al quale verrà calcolata la remunerazione della prestazione da effettuare durante il loro turno.
La scelta dei diversi turni da parte dei riders viene basato su un ranking, una sorta di posizione in classifica che viene determinata da un algoritmo sconosciuto ai riders stessi, che permette di scegliere i turni in cui effettuare le consegne. I riders, in sostanza, a seconda del giudizio di produttività loro riconosciuto da questo algoritmo, accedono a distinte fasce orarie di prenotazione e man mano saturano i turni lavorativi rendendoli indisponibili agli altri riders che il sistema considera meno produttivi.
Il rider che non rispetta il modello lavorativo imposto ovvero pone in essere condotte non conformi viene sanzionato dalla società. La società in questi casi, infatti, opera una diminuzione del punteggio cui consegue la retrocessione nella priorità della prenotazione delle sessioni di lavoro. Ma non solo. Il rider che cancella la prenotazione della sessione di lavoro senza il rispetto del preavviso imposto dalla società (tre ore) subisce una penalizzazione nel punteggio di eccellenza; inoltre, l’eventuale richiesta di riassegnazione dell’ordine ricevuto da parte del corriere, incide negativamente sul punteggio di eccellenza che subisce una notevole diminuzione.
La retribuzione, infine, prevede 5 euro lordi a consegna oppure, se si sceglie il dynamic fee, sono previsti 2 euro alla consegna più 1 euro al ritiro, più il differenziale chilometrico calcolato di volta in volta dalla società.
2. La qualificazione del rapporto di lavoro: il rider è un lavoratore subordinato
Per comprendere se i lavoratori delle principali piattaforme digitali siano lavoratori autonomi o subordinati, è necessario considerare il nesso tra la predeterminazione oraria per l’esercizio della loro attività e la sussistenza o meno di un vincolo di subordinazione. In altri termini, la questione fondamentale è verificare se il grado di autonomia dei lavoratori nello stabilire non solo l’an della prestazione, ma anche il quando, sia determinante ai fini qualificatori a tal punto da escludere che essi siano subordinati.
Tale elemento è essenziale, in quanto si è visto come l’azienda stabilisca delle fasce orarie (slot nel gergo maggiormente ricorrente tra le piattaforme di consegna di pasti e bevande) all’interno delle quali si inseriscono i riders in base a meccanismi di auto-assegnazione, influenzati tuttavia da scelte dell’impresa, mediante l’applicazione di algoritmi.
Una prima sentenza del Tribunale di Torino, aveva escluso la possibilità di qualificarli come lavoratori subordinati proprio in ragione del fatto che i riders potessero scegliere se e quando lavorare. In questo caso, la valutazione era stata fatta solo con riferimento al segmento del rapporto di lavoro con la piattaforma, quello iniziale, omettendo di addentrarsi nella valutazione anche dell’altro segmento, la fase esecutiva della prestazione. Tale valutazione della fase genetica del rapporto sarebbe stata tale, infatti e a parere del Tribunale, da far qualificare ab origine il rapporto come autonomo.
In appello, la Corte torinese si addentrava nell’analisi della fase esecutiva del rapporto, rilevando la sussistenza dell’etero organizzazione (e dunque della subordinazione), in quanto i ricorrenti erano parti integrante dell’organizzazione determinata in via unilaterale dalla committente.
La Corte, in particolare, riteneva applicabile la disciplina di cui al primo comma dell’art. 2, D.Lgs. 81/2015, pur chiarendo che ciò non avrebbe comportato, comunque, la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in quanto il fattorino «resta, tecnicamente, autonomo» nell’esercizio della prestazione di lavoro. Per la Corte d’Appello di Torino, infatti, il rapporto di lavoro del rider restava un terzo genere e, in quanto tale, distinto non solo da quello del lavoratore subordinato ma anche dalle collaborazioni coordinate e continuative.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 23768/2020, evitava di affrontare il problema, ritenendo non sensato interrogarsi sulla qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, dato che l’elemento essenziale è che per le collaborazioni coordinate e continuative, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento abbia comunque statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato anche ai rapporti di lavoro qualificati ai sensi dell’art. 2 D.lgs. n. 81/2015.
Tali collaborazioni non costituiscono dunque un “tertium genus” intermedio tra la subordinazione e il lavoro autonomo ma una fattispecie alla quale, al verificarsi delle caratteristiche individuate dallo stesso art. 2 citato, la legge, in un’ottica rimediale, ricollega imperativamente l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione, al fine di tutelare prestatori ritenuti in condizione di debolezza economica e, quindi, meritevoli della stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato.
Ciò detto, sottolinea la Suprema Corte, «non può neanche escludersi che, a fronte di specifica domanda della parte interessata fondata sul parametro normativo dell’art. 2094 cod. civ., il giudice accerti in concreto la sussistenza di una vera e propria subordinazione (nella specie esclusa da entrambi i gradi di merito con statuizione non impugnata dai lavoratori), rispetto alla quale non si porrebbe neanche un problema di disciplina incompatibile; è noto quanto le controversie qualificatorie siano influenzate in modo decisivo dalle modalità effettive di svolgimento del rapporto, da come le stesse siano introdotte in giudizio, dai risultati dell’istruttoria espletata, dall’apprezzamento di tale materiale effettuato dai giudici del merito, dal convincimento ingenerato in questi circa la sufficienza degli elementi sintomatici riscontrati, tali da ritenere provata la subordinazione».
È proprio sulla base di tale ultimo assunto e di richiamata giurisprudenza europea e internazionale che il Tribunale di Palermo è arrivato a ritenere come i ciclofattorini debbano essere qualificati come lavoratori dipendenti, a tempo pieno e indeterminato, applicando i minimi salariali previsti dal contratto collettivo di riferimento.
Il tribunale, nella sua ampia motivazione, sostiene infatti che, al di là dell’apparente e dichiarata (in contratto) libertà del rider, e del ricorrente in particolare, di scegliere i tempi di lavoro e se rendere o meno la prestazione, l’organizzazione del lavoro operata in modo esclusivo dalla parte convenuta sulla piattaforma digitale nella propria disponibilità si traduce, oltre che nell’integrazione del presupposto della etero organizzazione, anche nella messa a disposizione del datore di lavoro da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative per consistenti periodi temporali (peraltro non retribuiti) e nell’esercizio da parte della convenuta di poteri di direzione e controllo, oltre che di natura latamente disciplinare, che costituiscono elementi costitutivi della fattispecie del lavoro subordinato.
Una sentenza che è già stata definita da molti sindacati come “storica” e che potrà dunque aprire la porta a nuovi ricorsi, permettendo la corretta qualificazione di un rapporto di lavoro rimasto per troppo tempo e ingiustamente mascherato a discapito dei lavoratori.
3. Il salario minimo
Il riconoscimento dei diritti garantiti al lavoratore subordinato in capo ai riders compiuto dalla sentenza di Palermo può essere di spunto per alcune considerazioni finali in merito ad una esigenza impellente nell’attuale sistema socio-economico, riconducibile alla necessità di avere la garanzia di una retribuzione minima garantita a tutti i lavoratori.
Il salario minimo, nel diritto del lavoro, è la più bassa remunerazione o paga oraria, giornaliera o mensile che deve essere garantita ad ogni lavoratore.
La paga minima permette di aumentare o comunque garantire il tenore di vita dei lavoratori, riducendo le disuguaglianze sociali e aumentando significativamente il benessere lavorativo, con conseguente diminuzione degli sfruttamenti dei lavoratori precari o privi di contratto, spesso oggetto di abusi da parte dei datori di lavoro: se ad oggi è vero che nel nostro Paese la contrattazione collettiva garantisce già questo diritto ad oltre l’80% dei lavoratori attraverso la contrattazione collettiva, è altresì vero che l’imposizione del salario minimo attraverso una legge permetterebbe di garantire una copertura alla totalità dei lavoratori (anche a quelli precari o sommersi) non facendo venire certo meno l’operato dei sindacati ma, al più, garantendo loro una base di partenza per portare avanti nuove battaglie.
Per sgombrare il campo da ogni confusione interpretativa è bene sottolineare che, mentre il reddito di cittadinanza, il reddito minimo garantito e il reddito d’inclusione sono forme di assistenza (indipendente dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato), il salario minimo è costituito dal limite minimo della paga oraria, giornaliera o mensile.
Nell’Unione europea, 22 stati membri su 28 hanno adottato normative sul salario minimo, mentre i restanti 6 paesi (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia) demandano l’individuazione della paga-base alla contrattazione collettiva dei vari settori.
In merito a tale questione, Ursula Von der Leyen, Presidente della Commissione europea, sta spingendo per l’introduzione di una Direttiva finalizzata al riconoscimento di un salario minimo obbligatorio in ogni paese dell’Unione Europea. Che sia finalmente arrivata la volta buona per garantire maggiore dignità ai lavoratori, spostando finalmente in avanti le lancette dell’equità sociale?