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Scusi, lei è antifascista?

In queste settimane che precedono il voto europeo e l’ennesima tortorata regionale del centrosinistra, questa volta in Piemonte, sarà tutto un assistere al gingillarsi maldestro di Giorgia, ‘Gnazzio e il ministrocognato con la retorica dell’antiantifascismo. E non mi stupirei affatto se, a rafforzare la ridefinizione del concetto di egemonia culturale, comparisse a breve nelle edicole la raccolta a FASCIcoli “Le gioie del Ventennio”, edita da Altaforte, in cui Borgonovo e Senaldi, tanto per nominarne due, argomentano del “qncə, uomo incompreso” e di “quegli ingrati degli africani a cui abbiamo costruito pozzi, strade e scuole”.

Se quelli sopra sono i presupposti, qualche compagnuccio tanticchio contagiato dalla fenomenologia neoliberale potrebbe pensare che il problema sia solo quello dell’insostenibilità etica dei pronipoti del salame appeso e, di conseguenza, scriverne con toni aulici e sdegnati su qualche giornalone padronale, tirandosi dietro il plauso di altri antifascisti di maniera.

Invece, guarda un po’ cosa va a capitare, gli uni e gli altri giocano nello stesso campionato, quello dei cani da guardia del capitale. Non importa se questi latrano concetti a caso con la bava alla bocca e quelli hanno il piglio altezzoso di chi sfoggia il pedigree, quando si spengono le luci dei talk show e fingono di abbaiarsi contro l’un l’altro, si ritrovano tutti a fare da esecutori testamentari dell’onda lunga delle lotte per i diritti faticosamente acquisiti tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni Settanta.

Sarebbe bene che chi oggi si lamenta della censura meloniana sulla tv pubblica, ma solo ieri si sperticava in lodi imbarazzanti a Draghi salvatore della patria, facesse mente locale su un punto: il fascismo non fu semplicemente un’ideologia fondata sulla violenza, sul bellicismo e sull’intolleranza. Il fascismo fu anche e soprattutto un progetto politico finalizzato a proteggere la struttura capitalistica della società dall’ingresso di forze e strutture politiche che negli anni ‘20, in una fase di crisi del modello di sviluppo, avevano come punto di riferimento la lotta alla concentrazione del capitale e ne proponevano, sotto diverse forme, la redistribuzione.

Inquadrato in modo corretto, il fascismo è una fase della storia del capitalismo, vale a dire quella del mercato che si pone sotto l’ombra dello Stato forte. Lo stesso corporativismo fascista, introdotto dalla Carta del lavoro del 1924, è spesso portato ad esempio dai più “studiati” tra i liberali di provenienza destrorsa per sostenere l’equazione “fascismo uguale collettivismo”. Da qua a definirsi, all’occorrenza politica, come eredi della tradizione socialista è un attimo.

Al netto dell’ostinazione fuori tempo massimo con la quale certi intellettuali di sinistra chiedono a Meloni e parentame vario di definirsi antifascisti, pensando così di aver svelato la causa del malfunzionamento del Paese, noi andiamo oltre per osservare che non è un caso se la Costituzione nata dalla Resistenza antifascista non fu una generica carta liberale posta a protezione delle libertà civili dell’individuo.

Infatti, accanto alla dichiarazione dei diritti civili tipici della tradizione liberale, i padri costituenti accolsero l’idea secondo cui l’organizzazione dello Stato si fonda:
– sulla partecipazione politica dei lavoratori e sulla loro integrazione nella vita pubblica dello Stato (matrice democratica);

– sui diritti sociali e sul ruolo attivo dello Stato nel rimuovere i limiti che impediscono la piena realizzazione della persona limitando l’impresa privata in funzione dell’utilità sociale (matrice socialista).

Invece, da quando è iniziata l’integrazione europea, ovvero quella splendida festa di morte che ha comportato la subordinazione dei singoli stati ai trattati neoliberali dell’UE, dunque il sacrificio dei diritti sociali e della democrazia sull’altare del mercato, gli elementi democratici e socialisti della Costituzione hanno smesso di costituire i principi ispiratori della politica e di trovare realizzazione nell’organizzazione della vita politica e associativa in genere del Paese.

Ecco perché, quando si parla di Restaurazione neoliberale, si deve includere nella narrazione il processo di svuotamento del significato storico dell’antifascismo e la sua riduzione a mera rivendicazione delle libertà individuali rispetto alla “forza” dello Stato.

La severa conclusione che dovremmo trarre è che, dopo decenni di smantellamento della democrazia e dei diritti sociali, le condizioni politiche dell’Italia assomigliano in modo inquietante a quelle degli anni ‘20 del secolo scorso. Nel frattempo lo spirito dell’antifascismo, ridotto a “celebrazione della libertà”, si è quasi del tutto perso.

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