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Ma che risorge a fare?

La leggerezza con cui si parla di guerra è a dir poco sconcertante

Dalla sinistra interventista alla destra che tiene famigghia in politica, tutti in Italia vanno a traino delle dichiarazioni guerrafondaie di Macron e von der Leyen. La spiegazione più semplice di questa isteria è che le élites europee puntino a spingere i paesi al riarmo favorendo nuove privatizzazioni – ma sarebbe più corretto chiamarle privazioni – nella sanità, nell’istruzione e nei servizi.

La guerra costituisce un grande affare per le lobby delle armi. Come ho scritto la settimana scorsa, la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia sono l’esito di un processo involutivo e mefitico che genera un senso comune reazionario allo scopo di imporre un modello universale di stampo predatorio come unico mondo possibile.

In termini più generali, non è un’eresia da veteromarxisti affermare che il capitale privato si appresta a prendere ovunque il posto di quello pubblico riducendo ai minimi termini le conquiste sociali del secondo Novecento.

La spiegazione affaristica è sicuramente convincente, ma c’è dell’altro

Il mood della guerra registra da almeno vent’anni a questa parte, accanto alla restaurazione economica di stampo neoliberista, un vero e proprio cambio di cultura. Lungi dall’aver mantenuto la promessa da marinaio di benessere  generalizzato raggiungibile attraverso il libero mercato, quello che appare sempre più forte in Europa è “il tentativo di affrontare il declino della globalizzazione attraverso nuovi sentimenti di paura e odio verso ciò che sta ad est, ovvero verso Russia, Cina e Iran” (cit. Paolo Desogus).

Conviene fare i duri?

800mln di persone (l’Occidente) stanno combattendo una guerra per procura (più altre in tutto il globo terracqueo di cui si parla meno) contro 3,5/4MLD di persone più o meno organizzate e più o meno cooperanti (BRICS, BRIICS, BRIKT).

A partire grosso modo dal 2009 i paesi succitati sono diventati un blocco geopolitico più coeso, con i rispettivi Governi che si riuniscono annualmente in vertici, almeno per ora, formali.

Andando oltre le sigle, i loro scazzi reciproci e prendendoli tutti insieme, i paesi del “non Occidente” occupano  un posto sempre più importante nell’economia mondiale. In termini di PIL a parità di potere d’acquisto, la Cina è l’economia più grande, l’India è terza, la Russia sesta e il Brasile ottavo. Insieme rappresentano il 31,5% del PIL mondiale a parità di potere d’acquisto, mentre la quota del G7 è scesa al 30%. Se aggiungiamo pure Indonesia, Corea del Sud, Iran e Sud Africa, si supera di gran lunga il 40%.

Al contrario gli Usa vivono una fase di ripiegamento che sa di tardo impero e l’Europa nun je ‘a fa’ a reggere ai proclami bellicisti dei suoi leader. Così non resta altro che soffiare sul fuoco della dicotomia noi/loro e agitare lo spauracchio della guerra per giustificare il conservatorismo dilagante.

Bene, il presente sta lavorando per fornire la risposta: meno diritti per tutti e una società viepiù globalizzata sull’orlo del collasso sociale ed ambientale.

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