Alcuni “fenomeni” dell’apparato meloniano se la prendono con l’esecutivo precedente, quello dei “Migliori”. E, strano a dirsi, qualcosa di vero c’è. I ritardi risultavano già certi nell’ultimo periodo del governo Draghi. Tuttavia, finché quel governo è durato, non poteva fare altro che occuparsi della prima e di gran lunga più facile parte del Piano, le riforme, e quelle le ha completate in tempo.

Sempre tra le fila di FdI, quelle più pittoresche oserei dire, rimbalzano pure le critiche a Conte: «Come poteva pensare che l’Italia fosse in grado di spendere 220 miliardi?». Ecco, qua siamo all’apoteosi della minchiata. Pochi lo ricordano, ma la scelta di prendere l’intera somma a disposizione, unico paese europeo a farlo, è stata di Draghi.

I principali paesi hanno scelto di chiedere solo i grants e per l’Italia 98 miliardi a fondo perduto. Chi, come la Grecia e Cipro, ha voluto anche ai loans, i prestiti, lo ha fatto solo in piccola parte. Solo Roma ha chiesto tutti i 122 miliardi in prestito disponibili. La sfida era certamente ambiziosa e doppia: da una parte imprimere al paese una scossa in grado di tirarlo fuori dalla sua eterna stagnazione, dall’altro indirizzare l’intera Unione verso il debito comune, dimostrandone la validità proprio in Italia.

Solo che l’Italia non è attrezzata per una sfida di questa portata e il governo in carica, complici le sue menti sublimi, le derive sovraniste e certi casellari giudiziali non esattamente immacolati, è tra i meno adeguati a gestire la portata europea della partita. Questi “attestati di merito” spingono i “frugali del nord”, cioè i paesi che vogliono chiudere al più presto la parentesi Covid-Next Generation Eu, a irrigidirsi.

Tutti insomma hanno qualche ragione e qualche torto, ma intanto al governo ci sono loro, gli eredi del Ventennio più il seguace della salamella. Che ci facciano vedere finalmente di non essere “solo chiacchiere e distintivo”!