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Il “quarto stato”

Gli scioperi indetti dai sindacati non hanno mai attirato troppo la mia attenzione. Sarà che ho poca dimestichezza con il concetto di “appartenenza”, sarà che le organizzazioni verticistiche di qualsiasi tipo finiscono quasi sempre con l’esprimere un ceto dirigente che rappresenta sè stesso e tanti saluti alla base, ma ho sempre portato a casa di persona le rivendicazioni di pecunia e di diritti violati. In questo senso posso tranquillamente dire che il CCNL mi è stato utile solo per chiarire a certi potenziali datori di lavoro, attraverso un corso accelerato di economia aziendale su inquadramento e livello retributivo, che il loro  Cayenne mal si sarebbe conciliato con le rate di scuola dei miei figli.

Passando dal personale al generale, a me sembra che l’Italia sia ormai da trent’anni e più un gorgo di melma, perlopiù berlusconiana, in cui galleggiano personaggi come il Tribüla e la madama Garnero, assurti a modello di imprenditoria. Inoltre il passaggio dal capitalismo di produzione (la fabbrica) a quello speculativo (la finanza) ha generato una nuova organizzazione del lavoro sempre meno improntata allo spirito collettivo e sempre di più all’individualismo.

Viviamo una fase economica nella quale alle esigenze di sviluppo produttivo non corrisponde un’adeguata offerta nel mercato del lavoro. Detto in altre parole, quello dei nostri giorni è un mercato in cui il lavoratore qualificato scarseggia, ma continua ad essere richiesto. A metterla così, sembrerebbe che sia proprio il lavoratore colui che prevale nella trattativa con il datore di lavoro. Peccato che, stanti le figure “imprenditoriali” ricordate sopra, dedite più all’ostentazione della ricchezza che alla sua produzione, il mercato del lavoro italiano si sia progressivamente spostato verso settori a bassa qualificazione ( principalmente food, turismo e vendite online) e ad alto tasso di sostituibilità: la manodopera a basso costo.

La tendenza in atto da parte del neoliberismo è quella di parcellizzare e frammentare il lavoro tra una miriade di soggetti, scollegati tra di loro e fintamente valorizzati dalla retorica del lavoratore “imprenditore di sé stesso”. La risposta dei sindacati (e della sinistra armocromista) non poteva che essere una deriva populista con il ritrovato salario minimo.

In Italia ci sono ormai 10 milioni di cittadini che sono poveri pur avendo un lavoro (fonti Istat e Forum DD). La destra che si finge paladina delle periferie ha buon gioco nel portarli dalla sua parte, contando sulla totale adesione al modello neoliberista da parte della sinistra di governo. Il resto lo fanno l’indifferenza e la rassegnazione che costituiscono il partito di maggioranza relativa nel Paese.

È proprio sulla “linea della battigia” del recupero dell’identità di classe e, conseguentemente, del concetto di “lotta” (diamine, lo fa pure Elkann sulle pagine del giornale padronale di suo figlio!) che qualunque governo di destra o di fintosinistra va contrastato e ributtato a mare.

Ma da chi?

Il segretario della CGIL Landini ha preannunciato uno sciopero generale in autunno. Pur con il dovuto scetticismo rispetto a manifestazioni di questo tipo, non posso fare a meno di sperare che vi prenderanno parte tutti i cittadini democratici, i lavoratori dipendenti e autonomi, il ceto medio e tutti coloro che pagano le tasse, artigiani e imprenditori, affiancati da quei dieci milioni di poveri con le loro famiglie.

Un’unica linea di persone così partecipata da non essere contenuta nelle piazze e, al contempo, così forte da dare una spallata decisiva al governo Meloni per affrettarne la caduta.

È il pensiero della mancanza di alternative minimamente socialiste a preoccuparmi.

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