Premessa
Spero di essere smentito dai fatti, anche se ultimamente ci azzecco come neanche quel borioso edgelordista di Scanzi, ma sono parecchio scettico sulla durata delle piazze e sull’aggregazione spontanea al di fuori delle categorie riconosciute dell’appartenenza politica. Dico pure che i dotti pipponi di privilegiati quarantenni che saccheggiano da sinistra Schmitt, Arendt e Habermas (spero di averli scritti giusti) hanno un po’ rotto i coglioni.
Dai su, #donnamadrecristiana dice cose in linguaggio basico, i suoi fanlocefali si gasano, applaudono come foche al circo e questi studiatissimi alfieri della sinistra autoreferenziale tirano fuori certi sermoni da saputelli che ti fanno rimpiangere la catarsi che infiamma Fahrenheit 451. Bravi eh, ma non me ne vogliano, anche meno.
E allora eccoci qua, ancora una volta, a cercare di mettere insieme i pezzi di una narrazione accessibile. Ma accessibile a chi? Non so con chi vi interfacciate abitualmente voi che leggete i miei flussi di pensieri, ma spero che sarete d’accordo sul fatto che, se io in Barriera cercassi di portare dalla mia qualche anima semplice con le autorevoli capocce del pattuglione di intellighentia elitista crucca di cui sopra, molto probabilmente verrei sfanculato dai vari Gennarino, Omar e Ivan con cui mi misuro in Posta o al mercato rionale.
Detto in altre parole, chi siamo noi che abbiamo letto qualche libro l’abbiamo capito. È sul cosa vogliamo dire, come lo vogliamo dire e soprattutto a chi lo vogliamo dire che dobbiamo ancora migliorare. In ogni caso, se non vi ho già scartavetrato abbastanza i coglioni, ci sarebbe una sinossi subito a seguire. Vedete un po’ voi se appezzarla o se ridermi appresso.
“Abstract”
Quello che segue è un tentativo di analizzare, con gli strumenti tanticchio arrugginiti di un boomer di periferia, le dinamiche politiche e culturali che hanno condotto, in Italia, da un lato all’ascesa del nazionalpopulismo incarnato da Giorgia Meloni e, dall’altro, alla crisi comunicativa ed egemonica della sinistra progressista.
Il tono è quello solito di chi, lungi dall’aver qualcosa da insegnare o medagliette da appuntarsi sul petto, preferisce giocarsela sulla messa a nudo del sé attraverso l’elicottero, un concetto che ricorre nella dialettica socratica: ironia e cazzo di fuori.
Il punto di partenza è il perbenismo piccolo borghese, inteso come habitus culturale fondato su conformismo, decoro e difesa dell’ordine che fungono da dispositivi di legittimazione del potere.
Seguendo Carl Schmitt, citato proprio oggi in un post del compagno Matteo Manescotto su quel nastro trasportatore della merda che è Facebook, il populismo di destra trasforma questa inclinazione in una logica binaria amico/nemico, capace di tradurre insicurezze materiali e simboliche in narrazione identitaria.
Hannah Arendt vede tale processo come la premessa che si radica nella “banalità del conformismo”, rappresentato a sua volta come non-ideologia che di fatto produce esclusione e delega autoritaria.
Sul versante opposto, la sinistra progressista fallisce nel compito, delineato da Jürgen Habermas, di costruire uno spazio pubblico inclusivo e comunicativo. L’adozione di un linguaggio elitista, tecnocratico e spesso moralistico ha prodotto una frattura con le classi popolari e medie, lasciando campo libero alle semplificazioni identitarie della destra.
Il quadro si arricchisce con il contributo di Pier Paolo Pasolini, che aveva già denunciato la trasformazione antropologica del piccolo borghese e la sua adesione passiva a modelli consumistici e disciplinanti, e con quello di Antonio Gramsci, la cui nozione di egemonia aiuta a comprendere come la destra sia riuscita a costruire un blocco culturale coeso, laddove la sinistra ha smarrito la capacità di radicare il proprio discorso nel senso comune.
La tesi proposta è che il conflitto politico italiano attuale si configuri come una dialettica sterile tra rassicurazione identitaria e moralismo elitario: da un lato, il populismo che mobilita le insicurezze piccolo borghesi secondo una logica schmittiana; dall’altro, una sinistra che non riesce a esercitare la funzione gramsciana e habermasiana di egemonia e inclusione. In questa tensione si colloca la “banalità” arendtiana del conformismo e la diagnosi pasoliniana della perdita di autenticità, che insieme illuminano la radice culturale della crisi democratica.
Ho scritto un sacco di cazzate? Può darsi. I concetti che vado recuperando di volta in volta e con molta fatica da cose studiate oltre trent’anni fa e, per questo solo fatto, passibili di invecchiamento ideologico, mostrano però una cosa: il conflitto politico non si riduce ad una questione di programmi (ammesso che vi siano), ma di immaginari e forme di vita.
Finché la sinistra – o quello che le nuove generazioni vorranno essere – non saprà scendere dal piedistallo elitista per ricostruire un discorso pubblico condiviso dal basso, la politica italiana rimarrà prigioniera di una dialettica bloccata.
E allora la chiudo alla grande con Gramsci: “Il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”.
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