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IL MONDO DEL LAVORO E L’EVOLUZIONE TECNOLOGICA: UN BINOMIO DA TENERE SOTTO CONTROLLO

Articolo scritto in collaborazione con Dunia Astrologo, sociologa del lavoro e membro del Comitato Scientifico della Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci, nonché ex manager nella pubblica amministrazione e in aziende private e docente presso l’Università e il Politecnico di Torino.

 

 

Il mondo del lavoro sta cambiando sempre più rapidamente e la pandemia ha mostrato ancora di più quanto oggi il lavoro sia strettamente interconnesso alla tecnologia e alle sue continue evoluzioni.

Era il 9 gennaio 2007 quando Steve Jobs presentava a San Francisco il primo Iphone, mostrando come fosse possibile integrare all’interno di un unico device tre funzioni che fino a quel momento necessitavano di tre diversi apparecchi, permettendo ad un cellulare di chiamare, ascoltare la musica e navigare su Internet. La platea rimase estasiata ed entusiasta di tale innovazione, esplodendo in un applauso misto a stupore.

Oggi chiunque possiede uno smartphone in grado di svolgere contemporaneamente molte funzioni e nessuno si stupisce più che con un cellulare si possa navigare in internet o permettere di video-chiamarsi con persone distanti migliaia di chilometri.

Questo mostra come la tecnologia si evolva rapidamente e, conseguentemente, da un lato, il diritto debba adattarsi a tali evoluzioni al fine di tutelare adeguatamente il lavoratore e, dall’altro, il legislatore debba affrontare dal punto di vista sociologico tutte le problematiche associate al mondo del lavoro.

1. Gli aspetti giuridici della questione (a cura di Mattia Angeleri). 

a) Quali sono i controlli tecnologi che i datori di lavoro possono svolgere nei confronti dei lavoratori? 

La disciplina oggi è prevista all’interno dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970) come recentemente riformato dal D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act) che ha provato a ridefinire la disciplina dei controlli e adattare la normativa alle attuali evoluzioni tecnologiche.

Il primo comma dell’articolo in questione evidenzia come gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori:

  1. possano essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale (sostanzialmente per tassative finalità ritenute meritevoli di tutela);
  2. possano essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di accordo, previa autorizzazione dell’autorità amministrativa.

Il fine teleologico, seppur espresso in negativo, consiste nell’idea che l’installazione degli strumenti da cui può derivare il controllo sia ammesso solo in casi specifici, essendo altrimenti vietato, e che necessiti comunque del previo accordo sindacale per garantire la massima tutela nei confronti dei lavoratori.

La norma sottolinea, comunque, come le informazioni raccolte mediante l’impiego di tali strumenti siano utilizzabili in relazione a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal c.d. codice della privacy, ad oggi sostituito interamente dal G.D.P.R.

Il profilo maggiormente problematico a livello di interpretazione giuridica si rileva nel testo del comma 2 dell’art. 4 dello Statuto dei Lavori post-riforma.

Tale disposizione evidenzia come quanto previsto al primo comma (e quindi, in particolare, la necessità di un previo accordo sindacale) non si applichi agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa nonché agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

L’interpretazione ritenuta più plausibile dagli addetti ai lavori consiste nel ritenere che tale deroga riferita all’uso di strumenti di lavoro e di registrazione degli accessi e delle presenze possa trovare giustificazione solo in  finalità riconducibili alle “esigenze organizzative e produttive”, alla “sicurezza del lavoro” e “alla tutela del patrimonio aziendale”, nel rispetto dei principi generali del nostro ordinamento e, in particolare, di quanto previsto agli artt. 2, 13, 15 e 41, 2°comma, Cost.

Detta in altri termini, in presenza di “strumenti di lavoro” che per il loro funzionamento potrebbero consentire un controllo a distanza dei dipendenti non interviene il filtro dell’accordo con le rappresentanze sindacali ma deve operare comunque il filtro delle tassative finalità meritevoli di tutela,previste dal primo comma dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.

b) Quali sono i profili problematici della diffusione di strumenti di lavoro tecnologici di controllo? 

Dal punto di vista tecnico-giuridico, il rischio principale è quello di trasformare l’eccezione prevista dal secondo comma dello Statuto dei Lavori nella regola generale, permettendo un utilizzo massiccio e illegittimo degli strumenti dotati di potenzialità di controllo anche al di fuori delle esigenze tassative previste dal primo comma.

L’evoluzione tecnologica, infatti, rischia di incidere fortemente sulla possibilità di continuo controllo dei lavoratori, ledendo la privacy di quest’ultimi.

Un esempio concreto di quanto possano essere insidiosi i nuovi strumenti tecnologici può essere rappresentato dai c.d. wearable devices, dispositivi elettronici che alcune multinazionali concedono ai loro lavoratori e che questi indossano solitamente sul polso. E’ chiaro che laddove tali strumenti non operino nessuna azione di controllo, allora questi saranno liberamente utilizzabili anche in assenza di previo accordo sindacale o previa autorizzazione dell’autorità amministrativa; diversamente, laddove nel device venga inserito un dispositivo aggiuntivo destinato a registrare informazioni sulla qualità o la quantità del lavoro prestato dal singolo lavoratore, allora questo comporterebbe un controllo occulto e continuativo dei lavoratori, vietato in assenza dei requisiti tassativi citati al primo comma dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Un confine, quello tra l’evoluzione tecnologica e rispetto della normativa, davvero sottile e tale da necessitare di un continuo aggiornamento che solo un’attenta giurisprudenza è in grado di monitorare, rinnovando i propri intendimenti così da adattare i principi generali ai casi che le nuove tecnologie possono presentare.

3. Gli aspetti sociologici della questione (a cura di Dunia Astrologo). 

a) Qual è l’impatto dell’evoluzione tecnologica sul mondo del lavoro e sull’occupazione? 

Non è possibile dare una risposta netta in termini quantitativi a questa domanda.

Molto infatti dipende dalla prospettiva geografica in cui ci mettiamo e quali anni prendiamo in considerazione.  Ma se vogliamo cercare una risposta qualitativa, vediamo che negli ultimi 30 anni all’incirca, nel mondo occidentale i progressi costanti delle tecnologie non hanno, in generale, prodotto una riduzione netta del numero degli occupati ma hanno invece creato una grande polarizzazione nelle tipologie di lavori e di salari. Di fatto è in generale aumentata la produttività del lavoro, sono aumentate le retribuzioni delle fasce di lavoratori più qualificati, sono cresciuti i lavori a basso livello di qualificazione e bassissimi salari, mentre la fascia media si è notevolmente ristretta e impoverita.

Le prospettive per i prossimi anni sono dominate dalla certezza che digitalizzazione, automazione spinta e Intelligenza Artificiale accelereranno il cambiamento nella struttura del mercato del lavoro, rendendo rapidamente obsoleti e/o inutili diversi tipi di lavori con un alto contenuto di routine, di applicazione di protocolli standard, o con un livello di problem solving anche non banale, ma alla portata dei progressi del deep learning delle macchine. Di fronte a questa prospettiva economisti, politici, futurologi eccetera immaginano scenari radicali, vuoi in senso positivo, vuoi in senso negativo.

Alcuni immaginano che le macchine elimineranno molti più posti di lavoro di quanti se ne possano creare, inducendo una disoccupazione tecnologica talmente ampia da provocare un forte impatto sociale e richiedendo quindi, come minimo, una politica di sussidi per moderare gli effetti sulle diseguaglianze che inevitabilmente si creerebbero tra cittadini “fortunati”, in grado di mantenere la loro posizione  di lavoratori altamente qualificati, ben pagati e con  un elevato standard di vita, e cittadini costretti a vivere di lavoretti e sempre in bilico tra povertà e miseria.

Altri invece sostengono che,  pur con possibili disallineamenti temporali, buone politiche focalizzate da un lato su forti investimenti nel campo della formazione e dall’altro su strumenti articolati di welfare accompagneranno la creazione di posti di lavoro complementari a quelli che le macchine staranno sostituendo, in particolare proprio nel campo della progettazione e realizzazione dei complessi sistemi di software necessari a sviluppare il rapporto tra intelligenze meccaniche e bisogni umani.

Io appartengo a questa seconda categoria di persone e ritengo comunque estremamente importante che la classe dirigente, i politici, gli imprenditori, gli studiosi, lavorino insieme per creare le condizioni di una trasformazione non “disruptive”, non traumatica del mondo del lavoro.

b) Quali sono le possibili alternative al modello capitalistico rese possibili dall’onda dell’innovazione tecnologica e come si potrebbero attuare nel mondo occidentale? 

Il modello di sviluppo capitalistico ha già subito molte trasformazioni negli ultimi anni, caratterizzati da una velocità di cambiamento mai sperimentata prima  nella storia dell’umanità. Le più recenti vedono una progressiva dematerializzazione della produzione di ricchezza.

Da un lato vi sono le big tech che creano enormi profitti al di fuori di una logica produttiva classica, incentrata sull’utilizzo di capitale, mezzi tecnici, materie prime e lavoro come fattori capaci di accrescere il valore sociale realizzabile sul mercato. Infatti aziende come Facebook, Google, Amazon, AliBaba, Apple, Microsoft, realizzano i loro profitti in modo sempre più ampio attraverso l’acquisizione di informazioni e dati che noi regaliamo loro mentre usiamo le loro applicazioni. Youval Harari chiama questo modello economico “dataismo”. E vi è un universo di applicazioni software che su quei dati, e su altri forniti dall’interazione dei cittadini con numerosissimi device e applicativi, anche pubblici, contribuiscono a creare un nuovo mercato, quello del cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” , come lo ha descritto Shoshana Zubof,  che cresce anche a scapito della nostra libertà di movimento e di azione, in favore della sicurezza, di cui pare sentiamo sempre crescente bisogno.

Dall’altro lato, il settore più dematerializzato di tutti è quello della finanza, che con la velocità e la potenza di elaborazione di enormi masse di dati in frazioni di secondo è in grado di capitalizzare ricchezze incredibili e influire pesantemente sull’economia reale, spesso senza o con scarsi controlli da parte delle autorità finanziarie.

A fronte di queste trasformazioni, che procedono di pari passo con la progressiva dematerializzazione di ogni altro settore economico, credo che vi siano almeno due strade praticabili e realistiche, che presuppongono però lo scardinamento del paradigma centrale del capitalismo, quello del progresso tecnico fine a sé stesso. Un percorso dovrebbe essere quello di indirizzare il progresso tecnico verso la costruzione di una società in cui le ricchezze siano distribuite in modo più equo e più efficace e le innovazioni vengano finalizzate a proteggere e far respirare il pianeta, migliorando le condizioni di vita dell’umanità. Dall’altro lato, l’incremento di produttività ,reso possibile da automazione e IA ,dovrebbe essere esteso a tutti i settori della produzione, ciò che consentirebbe di “liberare tempo di lavoro” (liberazione del lavoro) abbassandolo e redistribuendolo, in modo da consentire di far crescere i livelli occupazionali, sbloccando in particolare la disoccupazione giovanile e femminile e realizzando un processo di liberazione dal lavoro e dall’alienazione a cui oggi siamo sottoposti.

Evidentemente tali processi non possono essere immaginati come lineari e automatici: richiedono invece un grandissimo e intenso lavoro politico e culturale per cambiare profondamente le coordinate del sistema capitalistico, sapendo che non sarà una strada né breve né liscia.

Ma penso che le nuove generazioni possano intraprenderla, questa strada; anzi la debbano intraprendere, per evitare all’umanità intera un ritorno al medioevo (in un suo libro illuminante scritto nel 1970, Roberto Vacca spiegava come i progressi scientifici e tecnologici non bastassero a far funzionare bene i grandi sistemi complessi costruiti dagli uomini, disordinati, mal progettati e non integrati tra loro. L’instabilità che ne sarebbe derivata li avrebbe resi ingovernabili spingendo l’umanità verso un “medioevo prossimo venturo”, se non si fosse presa coscienza dei limiti dello sviluppo e della necessità di programmare la crescita. Parole che dopo cinquanta anni sembrano ancora estremamente attuali, esortazioni che a mezzo secolo di distanza non sembrano essere state ascoltate da nessuno.)

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