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I “pavloviani”

In quella che è ormai divenuta, almeno in apparenza, una contrapposizione frontale tra politica e cultura, le nuove élite fanno breccia nelle pulsioni basiche della ggente (mamma, pappa, cacca, gnagna, dux), raccogliendo voti e vincendo regolari elezioni.

Gli altri, quelli bravi e competenti, fanno sfoggio di retorica, citazioni e consecutio usate bene, ma non vanno oltre il senso di fastidio da ZTL e l’autoreferenzialità conclamata di chi ti guarda dall’alto, aspettandosi la dovuta deferenza.

Il ceto a cui appartengo, pur prendendone ogni giorno le distanze con il mio sarcasmo nichilista, è bravo a tagliare nastri, a vestirsi bene per i selfie sui social e a sorridere mostrando la chiostra di denti curati di chi ha la sanità integrativa. Tuttavia non lasciatevi fuorviare: sono i riflessi pavloviani* tipici di chi reagisce soprattutto su un piano estetico-morale alla miseria reale di chi respira la povertà ad ogni fine mese o utenza.

Questo ceto, ahimè, è anche il ceto intellettuale o sedicente tale di sinistra.  Le possibilità di sentirmi in sintonia con costoro sono le stesse che avrei di parlare ad Atreju e riscuotere applausi.

O forse meno.

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*Ivan Pavlov è stato un fisiologo russo noto per aver scoperto il fenomeno del condizionamento. Nei suoi esperimenti con i cani, a uno stimolo neutro, Pavlov era riuscito ad associare una risposta fisiologica dell’animale, come la salivazione. Un esempio di condizionamento pavloviano può essere riassunto dalla seguente relazione:

Stimolo: povery -> Risposta: “signova mia”

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