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𝐋’ 𝐚𝐧𝐧𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐯𝐞𝐫𝐫𝐚̀ – 𝐥𝐚 𝐝𝐞𝐦𝐨𝐜𝐫𝐚𝐳𝐢𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐚𝐫𝐚̀

E’ arduo affrontare questo tema per la sua complessità anche senza spingersi fino a fare previsioni, anche volendo solo tratteggiare lo stato dell’arte, i mille aspetti che riguardano il modello democratico, come è stato in passato e quello che sta diventando, sotto l’azione dei cambiamenti della società dei nostri tempi. Tentiamo allora di mettere a fuoco alcuni aspetti che ci sembrano interessanti rispetto al presente, ben sapendo che sono solo una parte, e poi chi lo ritiene opportuno può tentare di riunire questi elementi, come i puntini dei disegni che ci facevano fare da bambini, scoprendo relazioni e associazioni, per individuare una forma che rappresenti globalmente la possibile forma della nuova democrazia.
L𝒂 𝒅𝒆𝒎𝒐𝒄𝒓𝒂𝒛𝒊𝒂 𝒆̀ 𝒊𝒍 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒓𝒂𝒓𝒊𝒐 𝒅𝒊 𝒎𝒂𝒔𝒔𝒂 (Laura Pigozzi “Troppa famiglia fa male”): un primo elemento di pericolo della democrazia è costituito quando il popolo diventa massa. L’ideologia della massa si diffonde grazie a un gadget formidabile: il regalo di un’identità a chi è privo di uno statuto personale consistente. In cambio chiede la cancellazione delle distinzioni tra i soggetti e delle loro singole variabilità: massa e identità sono sinonimi. Nell’identità tutti collassano su pochi punti comuni, mentre le zone più proprie del soggetto sono scarti, resti ininfluenti. I totalitarismi fanno leva sul bisogno di essere illusi da messaggi semplice ripetitivi volti a rafforzare una identità che è schema comune, annulla l’individuo. Il linguaggio dei totalitarismi asseconda le pulsioni e il senso di appartenenza. La suggestione è l’arma del tiranno sulla massa: essa agisce contro ogni interesse individuale del suggestionato e delle convinzioni del gruppo a cui appartiene.
La disobbedienza civile è la riattivazione del contratto sociale istituito tra gli uomini, quando esso si sta smarrendo. Se la democrazia diretta è tipica del narcisismo infantile dell’Io, quella rappresentativa riconosce il funzionamento dell’Alterità che ne argina le pretese antisociali (difficilmente l’Io da solo è democratico). La rappresentatività è un principio strutturante che mette un freno al pensiero di pancia, all’immediatezza bestiale, alla miseria culturale di un popolo. La disintermediazione è l’anticamera della barbarie. Democrazia significa tollerare di essere rappresentati, è accettare di perdere qualcosa, è abbandonare la logica del tutto. Il partecipare sempre, l’essere ogni volta presenti non è democrazia, è paranoia, è non accettare alcuna delega. E chi è che non accetta di delegare? Il dittatore.
𝑳𝒂 𝒅𝒆𝒎𝒐𝒄𝒓𝒂𝒛𝒊𝒂 𝒅𝒆𝒊 𝒇𝒐𝒍𝒍𝒐𝒘𝒆𝒓𝒔 (di Alberto Mario Banti): Dilagano le disuguaglianze, la nostra vita è sempre più precaria, l’ascensore sociale si è rotto. Eppure, invece di indignarci e lottare, passiamo il tempo a mettere like su Facebook e a seguire l’influencer più in voga. Le politiche neoliberiste degli ultimi decenni hanno arricchito una minoranza, approfondendo le disuguaglianze e riducendo la mobilità sociale. Eppure a questo stato di cose non corrisponde una reazione di massa, come se le persone fossero impoverite non solo materialmente e fossero incapaci di immaginare un altro scenario. E in effetti, sul piano politico nessuno mette sufficientemente in discussione la logica del ‘libero mercato’, che viene considerata una legge di natura. La destra sovranista – con Salvini e Meloni – ha aggiornato la retorica nazionalista ottocentesca indicando negli immigrati e nell’Europa i nuovi capri espiatori. La sinistra ha passivamente seguito, illudendosi di poter dare una versione ‘progressista’ del patriottismo. Entrambe le parti politiche, in Italia come in tutto l’Occidente, si trovano perfettamente unite nell’accettare il ‘culto neoliberista’ della performance e della vita come competizione per il successo individuale. Questa narrazione ha trovato una potente linfa a suo sostegno in una cultura di massa – sapientemente alimentata dalle grandi corporation dell’intrattenimento – che ha eliminato ogni aspetto tragico della realtà, portando il pubblico a credere a una dimensione inverosimile e infantile in cui il bene trionfa sempre e il male viene punito. Una continua produzione di favole che incantano e alla fine inducono ad accettare passivamente ogni iniquità e ogni sfruttamento. In una «democrazia di followers» dominano «opinioni pubbliche fragili, incapaci di formulare autonomamente un pensiero critico; incapaci di riconoscere cause ed effetti nel disastro sociale prodotto dal neoliberismo; indotte a recitare bovinamente il mantra “There Is No Alternative”». La libro di Banti un grido di allarme rispetto alla crescente perdita di capacità di reazione collettiva.
𝑷𝒐𝒄𝒉𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒓𝒐 𝒎𝒐𝒍𝒕𝒊 (Nadia Urbinati): Nel suo libro Nadia Urbinati esplora il cuore del meccanismo democratico: la scossa conflittuale tra i ‘pochi’ e i ‘molti’, le élites e il popolo. Con il nuovo secolo e la fine dei partiti ideologici che organizzavano la partecipazione e traducevano le emozioni in linguaggio politico, i conflitti hanno cambiato di pelle e di senso. Sono diventati un’altra cosa – una “cosa” difficile da denotare, che in effetti non ha un nome e comunque non viene designata (o lo viene molto raramente) con il termine “conflitto”. La questione davvero cruciale di questo nuovo conflitto, scrive Urbinati, non va tuttavia cercata nella consueta contrapposizione dei “molti” di queste piazze contro i “pochi”, intesi sia come l’oligarchia dei ricchi e dei potenti che come l’establishment rappresentato dai leader di partito. Al contrario, «la contrapposizione oggi più radicale è quella dei “pochi” contro “i molti”, anche se questo aspetto non si manifesta con la stessa dirompente chiarezza, perché l’azione contrastante dei “pochi” opera generalmente in maniera indiretta e sottotraccia». In un rovesciamento della contrapposizione delle piazze contro i palazzi del potere, Urbinati mette a fuoco l’altra battaglia, la più persistente e fatale delle lotte, che tematizza il divorzio cruciale del nostro tempo, nonché la minaccia più attuale all’ambizione democratica. In questa graduale frattura tra due popoli all’interno dello stesso demos – all’interno della sovranità nazionale – si consolida infatti la scissione tra élite e popolo, che si ergono l’un contro l’altro armato in una democrazia post-partitica dal sapore repubblicano. Il fossato sempre più profondo tra “dentro” e “fuori” le istituzioni non è infatti solo politico, ma – come nelle repubbliche del passato, imperniate sulla divisione radicale tra patrizi e plebei – è anche culturale e sociale, estetico e geografico: una realtà che sta al di fuori della democrazia. Il XXI secolo è punteggiato da una serie ininterrotta di manifestazioni popolari che hanno portato in piazza un diffuso scontento: le primavere arabe, Occupy Wall Street, gli indignados, i Vaffa Days, i gilet gialli, le manifestazioni sul clima, le rivolte in Cile, a Hong Kong, in Libano. Quello a cui assistiamo è un conflitto nuovo rispetto a quello rappresentato e organizzato da partiti e sindacati: è contrapposizione tra pochi e molti, tra chi detiene il potere e chi sente di non contare nulla. La frattura sociale profonda che questi antagonismi evidenziano mette in crisi l’idea stessa di democrazia e la espone al rischio di pulsioni autoritarie. Ma questo non è un esito scontato: come scriveva Machiavelli, il conflitto tra pochi e molti può essere anche un lievito di libertà, se il nuovo ordine che ne può risultare riequilibra il potere nella società.
𝑳𝒂 𝒄𝒓𝒊𝒔𝒊 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒆́𝒍𝒊𝒕𝒆𝒔: Alessandro Baricco, autore decisamente pop, ha dato un po’ di tempo fa l’avvio a un dibattito interessante sulla crisi delle élites. Secondo lo scrittore è andato in pezzi il patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha una crisi di fiducia per cui deciso di fare da sola. “Non è proprio un’insurrezione – sostiene – non ancora. È una sequenza implacabile di impuntature, di mosse improvvise, di apparenti deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità. Ossessivamente, la gente continua a mandare – votando o scendendo in strada – un messaggio molto chiaro: vuole che si scriva nella Storia che le élites hanno fallito e se ne devono andare. Il patto prevede che la gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere; ma non ha funzionato.”
L’idea di sviluppo e di progresso della classe dirigente non riesce a generare giustizia sociale, distribuisce la ricchezza in un modo delirante, distrugge lavoro più di quanto riesca a generarne, lascia il centro del gioco a potenze economiche scarsamente controllabili, continua a essere fondata su un feroce controllo di intere zone deboli del pianeta e mette in serio pericolo la Terra, dimenticandosi che è la casa di tutti, non la discarica di pochi. Le élites sono da tempo preda di un torpore profondo, una sorta di ipnosi da cui declinano un pensiero unico, allestendo raffinati teoremi i cui risultato è sempre lo stesso, totemico: There Is No Alternative. Stanno arrestando la storia, e allevando degli eredi incapaci di pensare qualcosa di diverso dalle ossessioni dei padri. Una sola volta, negli ultimi cinquant’anni, le élites hanno generato un pensiero alternativo: è stato quando le son sfuggiti alcuni contro-pensatori, più che altro tecnici, dalla cui eresia è poi nata l’insurrezione digitale. Dal loro torpore, le élites l’hanno registrata in ritardo, bollandola come una deriva commerciale di dubbio gusto e pensando di risolverla così. Era invece una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza, perfino una nuova moralità. Nel tempo in cui questo accadeva, l’unico riflesso brillante delle élites è stato usare la rivoluzione tecnologica per fare soldi: che vendessero le reliquie del Novecento o finanziassero start up, si sono messi a vendere i biglietti per assistere alla propria condanna a morte.
La gente dal canto suo incapace di futuro, recupera il passato. Si è scelta leader che le offrono una vendetta quotidiana e una retromarcia al giorno: è quello che sanno fare. Non riescono a immaginare un granché, si limitano a cercare di correggere l’esistente ereditato dalle élites. Spesso non riescono nemmeno tanto a farlo, per incompetenza, scarsa attitudine al governo, improvvisa scoperta dei propri limiti, obbiettiva tostaggine del nemico e vertiginosa complessità del sistema.
Marianna Mazzucco, economista di fama internazionale, replica che mentre per Baricco la crisi che stiamo attraversando è innanzitutto una crisi di fiducia delle masse nei confronti delle élite, le cose non stanno così. Non è che la democrazia funziona quando le élites, pur proteggendo e incrementando i loro privilegi, riescono magnanimamente a dispensare una forma di convivenza accettabile per le masse. La democrazia ha creato società meno inique quando gli “esclusi” hanno saputo rappresentarsi e strappare alle élite concessioni che hanno reso meno penosa e più piena la vita di tutti (spesso anche delle élite stesse). Ma qui non c’è niente di deterministico. Ci sono voluti sindacati, movimenti ecologisti, movimenti femministi. Le otto ore di lavoro, condizioni decenti in fabbrica, il sistema sanitario nazionale, il voto alle donne, anche qui si potrebbe andare avanti per pagine … non sono stati graziosamente concessi dalle élite. Dunque due visioni opposte a confronto.
Forse nel ricambio di ogni élite c’è la via virtuosa di ogni democrazia, forse la chiave è una società consapevole, informata, che sa chiedere e sa esercitare il controllo su chi decide per tutti.
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